Cento giorni di regressione politica, sociale e (in)civile

Ricalca un po’ il tatticismo del vecchio berlusconismo, quello di primo modello: toccata e fuga, per poi tornare sull’argomento e sul tentativo di intervento politico antisociale nel concreto. E’...
Il governo Meloni in aula alla Camera dei Deputati

Ricalca un po’ il tatticismo del vecchio berlusconismo, quello di primo modello: toccata e fuga, per poi tornare sull’argomento e sul tentativo di intervento politico antisociale nel concreto.

E’ la tecnica dei ministri del governo Meloni che la sparano grossa per saggiare gli umori, più di pancia che di testa, di una popolazione sfibrata dal lungo inverno fatto di aumenti, di costi esorbitati, di ristrettezze, in mezzo a qualche campagna elettorale regionale dove si innesta la disorganizzata riorganizzazione costituente del PD.

Un bel miscuglio, in cui si possono accendere gli animi per dividere a metà l’opinione pubblica e mettere gli uni contro gli altri, mostrando quanto il “divide et impera” valga ancora oggi come leva di deformazione governativa degli impianti di diritti fondati su una Costituzione, tutt’altro che mero formalismo messo per iscritto più di settant’anni fa.

La tecnica è, dunque, questa.

Ma, nel merito, poi l’esecutivo cerca la concretizzazione, la realizzazione delle sue politiche che si concentrano sulla formalizzazione costante di quel “neoliberismo conservatore” che è una felice, sintetica. Molto lontano quindi dalla traduzione pratica di un programma di destra sociale che qualcuno aveva immaginato potesse essere ereditato sic et simpliciter da Fratelli d’Italia, soprattutto per accattivarsi l’elettorato più fragile sia sul piano sociale sia su quello più prettamente economico.

Al superamento dei primi cento giorni di governo, l’esecutivo di Giorgia Meloni è invece la fotocopia di quelli precedenti in quanto a disposizioni che riguardano l’intervento sulle cifre del PNRR, la disposizione nei confronti delle categorie sociali più disagiate e preda della diffusione della precarietà in ogni direzione possibile; ed è, altresì, l’aggiornamento di una politica estera che non si discosta da quelle messe in essere sia dai governi di centrosinistra sia dagli esecutivi cosiddetti “tecnici“.

Ci si può sorprendere, così, sia per la mancata sottolineatura sociale di riforme politiche che mirassero a non esacerbare le dinamiche di impoverimento delle class meno abbienti, già pesantemente oggetto di intervento sulla scia della celeberrima “agenda Draghi” (rivendicata a pieni polmoni da Letta durante tutta la campagna per le politiche dello scorso settembre); e sia per gli equilibrismi inevitabili, tutti interni alla maggioranza della destra conservatrice e reazionaria, che ondeggiano sulla giustizia, sul tema delle migrazioni, sul caro bollette, sul ruolo dell’Italia dentro il conflitto ucraino.

Riguardo tutte queste problematiche cogenti, Giorgia Meloni si muove cercando di avere l’appoggio di una parte della minoranza, di quella finta opposizione del cosiddetto “Terzo Polo“, per supplire alla concorrenzialità dei suoi alleati, mantenendone separate le esigenze, riducendoli a supporter della nervatura essenziale del governo.

L’ispirazione programmatica essenziale è quella che viene dal programma del suo partito che, proprio per il ruolo avuto nel recente passato, riesce a divincolarsi bene in questo trittico inevoluto di destra a metà tra il vecchio sovranismo salviano e l’ancora più vecchio liberal-liberalismo berlusconiano.

Attorno all’azione del governo si concentrano tutte le spinte più liberiste e conservatrici della società moderna: la tutela del privato con tutti i privilegi di classe che comporta, la disposizione del pubblico a variabile dipendente dell’economia di mercato, la coniugazione di ogni intervento strutturale (ammesso che possano definirsi tali i lavori dell’esecutivo in questi primi tre mesi e mezzo di lavoro) secondo una simbiosi tra attuazione dei dettami europei in materia di finanza ed economia e un non troppo evidente scostamento (anche di bilancio) da quegli interessi nazionali che sono stati un cavallo di battaglia della destra da sempre.

Gli inconvenienti globali, peraltro anche ampiamente prevedibili, come l’aumento del costo delle materie prime energetiche e della vita in generale, con una inflazione balzata oltre l’11%, non hanno certamente aiutato la nera stella meloniana a brillare nel firmamento di quella novità politica che aveva promesso agli elettori con uno slogan davvero sintetico ed efficace: “Pronti!“.

La prontezza antisociale e anticivile del governo si è vista immediatamente: nel dare dimostrazione della sua originalità e peculiarità di destra provando a fare un decreto anti-rave, promettendo la linea dura sugli sbarchi dei migranti, tentando una stretta sulle ONG, richiamando l’Europa alle sue responsabilità, giurando fedeltà eterna all’Alleanza Atlantica sulla guerra e sul riarmo (con conseguente aumento della spesa militare al 2% del PIL).

Con una legge di bilancio in cui non c’è un intervento che sia uno in favore di una espansione dei diritti sociali (a cominciare dalla sanità pubblica), scontentando tanto i sindacati quanto Confindustria (almeno dalle prime dichiarazioni di Bonomi…), Meloni, in strettissima collaborazione con i ministeri competenti, ha consegnato all’intervento economico del governo il mandato di tutelare un ceto medio emergente, provando a sostenerlo sul fronte caldo delle tasse, tra pos e contanti in tasca, tra mille polemiche e altri dietro front di Palazzo Chigi.

Non si può certo affermare che quella del governo sia stata un’azione riformatrice e, contemporaneamente, nemmeno si può dire che abbia dato il meglio (quindi il peggio) di sé stesso come governo di destra: l’imbrigliamento tra politica nazionale e continentale, nel mezzo di una crisi economica che è principalmente crisi energetica in una economia quasi di guerra, ha tarpato le ali di una destra che avrebbe potuto scatenarsi molto di più.

Se gli atti emergenziali e le decretazioni del governo non sono da prendere alla leggera, ciò che preoccupa maggiormente è, tra l’altro, quella controriforma istituzionale che il ministro Calderoli porta avanti sommessamente, senza troppo clamore: una vera e propria divisione classista del Paese.

Nemmeno più una “autonomia differenziata“, quella che piaceva tanto anche a Bonaccini unitamente a Zaia e Fedriga, bensì un progetto di unità solo formale della Repubblica, svuotata del suo valore di condivisione sociale, di comunità, di valorizzazione delle eccellenze e di soccorso nei confronti delle fragilità vaste di una larga parte del Paese.

Il progetto leghista di autonomia territoriale verte sul consegnare maggiori poteri, risorse, privilegi e discrezionalità ai territori assolvendoli dall’obbligo morale, civile, costituzionale di essere parte del tutto, ma solamente referenti di sé stessi: ciò che al nord si produce resta al nord. Ognuno se la cavi da sé. Così si frantuma la solidarietà nazionale e si mette in pericolo l’idea stessa di mutuo soccorso, di reciprocità e di equipollenza tanto dei diritti quanto dei doveri.

Se prevalesse, dopo questi primi cento giorni di governo, la linea dura del calderolismo, una sorta di rivincita dell’autonomismo pseudo-federalista della Lega separatista di un tempo, ci ritroveremmo con venti modelli diversi di sanità, di cultura, di prossimità di una serie di interventi sociali che sarebbero irriconoscibili tanto nei confronti del dettame costituzionale quanto nella loro formulazione specifica.

Il grande patriottismo di Meloni, alla prova dei fatti, dovrà cercare una quadra tra questa controriforma – che andrà contrastata anche mediante referendum popolare – e la presuntuosa rivendicazione destrorsa dell’indefessa omogeneità sociale da nord a sud e viceversa. Un rimando un po’ al manifesto di Verona e alla pretesa “sociale” del MSI di essere il polo aggregativo della classe operaia e lavoratrice da un lato e di quella medio borghese dall’altro.

Una conciliabilità impossibile da realizzare, completamente striata da scanalature di una storia perversa, consegnata al fallimento di sé stessa sia se rivolta al passato, sia se concentrata su un presente che deve fare i conti con una compatibilità liberista che obbliga Meloni e Fratelli d’Italia ad essere “sociali” e “popolari” soltanto a parole.

I primi cento giorni del governo sono un arretramento culturale, sociale, morale e civile su tutti i fronti: di pace, di guerra, di politica interna ed estera. Non ultimo l’accordo con la Libia per aumentare ancora le capacità repressive di quella guardia costiera che riporta i migranti in veri e propri lager dove le torture si sprecano, le violenze sessuali sono all’ordine del giorno e il commercio di esseri umani è la costante.

Il tutto per avere un contratto favorevole su una fornitura di gas da otto miliardi di euro.

I primi cento giorni del governo Meloni ci consegnano un bilancio preventivo disastroso. Quello che deve ora preoccuparci e allertarci è il centounesimo giorno e tutti quelli seguenti. Ad ogni sole che sorge, libero e giocondo, corrisponde un attacco ai diritti sociali e civili, al mondo del lavoro e a quell’impianto costituzionale che, nonostante tutto, ancora regge.

Ma rischia di rimanere, se non staremo attenti, un richiamo ad una formalità, ad un tradizionalismo istituzionale superabile. Nel nome della libertà di mercato, della modernità e, ovviamente, di un patriottismo che fa sempre da contorno a queste regressioni antisociali, anticivili e decisamente immorali.

MARCO SFERINI

29 gennaio 2023

foto: screenshot tv

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