Fatherland

Se, se, se. La Storia non si fa con i se. E nemmeno con i ma. Eppure si può provare a fantasticarvi sopra, mescolando un po’ di fatti con...

Se, se, se. La Storia non si fa con i se. E nemmeno con i ma. Eppure si può provare a fantasticarvi sopra, mescolando un po’ di fatti con un po’ di immaginazione che, in fondo, solletica benevolmente gli anfratti delle ipotesi, i doppifondi degli eventi, i diversi punti di vista che possono essere traditi dalla impazienza di mettere la parola fine all’analisi storiografica di un dato evento, di un momento, di un’epoca di passaggio, di un’era vecchia che lascia il posto ad una nuova.

Robert Harris scrive “Fatherland” (Oscar Mondadori, 1992) proprio mente l’Europa sta cambiando. Da due anni e mezzo non è più la stessa, rispetto a quella che si era vanuta costituendo nel nuovo ordine democratico occidentale in antitesi a quello sovietico e, in parte, anche alle cosiddette “terze vie” ai due blocchi impostisti con la Guerra fredda.

Le avvisaglie della crisi rovinosa del 1989, dello sfaldarsi dell’URSS e della fine del socialismo reale nell’Est Europa, si erano avvertite nelle scosse telluriche ancora piuttosto sotterranee di una voglia di globalizzazione che il moderno liberismo stava introducendo come elemento di contraddistinzione tra benessere e malessere, vita e sopravvivenza, modernità e medievalità novecentesca nei paesi in cui l’economia di mercato era rimasta piuttosto alla porta (nonostante il prevalere del capitalismo di Stato).

Forse era più difficile immaginare ciò che non era ancora avvenuto piuttosto che pensare ad un romanzo ucronico, alla realizzazione di un mondo del recente passato, parallelo, interstiziale tra l’essere non completamente stato e il non essere per nulla potuto essere nella sua proiezione futura. La Germania hitleriana che va oltre il 1945, che Harris delinea come un vasto impero dall’Alsazia fino agli Urali, è qualcosa di tremendamente affascinante perché sovverte tutto ciò che invece noi sappiamo della Storia, in quanto tale.

Fatherland” ci costringe a fare davvero un grande sforzo di caratterizzazione figurativa di una società tedesca, europea e di un mondo intero che non è mai esistito ma che avrebbe potuto avere una chance prima del 1942, prima che il conflitto iniziasse a volgersi al peggio per le potenze dell’Asse: dall’Africa a Stalingrado, per poi mutare sorte anche nella grande, immensa lotta nel Pacifico.

C’è una affascinante coerenza nello svolgersi del romanzo che, fino ad un certo punto (per la precisione proprio l’anno bellico citato appena qualche riga sopra), è e deve essere sostanzialmente fedele alla storicità, perché comunque da essa trae il suo sviluppo ucrinico successivo. Ed è proprio questo crinale che si è costretti a passare, questo scollinamento repentino tra esisto e immaginato che scombussola e impone un cambio di passo anche nella lettura.

Harris è molto attento nella preservazione dei caratteri originari dei personaggi. Non riscrive la loro storia ma, ad un dato momento, molto semplicemente la inserisce in un viatico fantastico che ha qualcosa di simile al viaggio nel tempo pur senza tradire qualunque forma di soluzione di continuità. La vicenda di Xavier March, ispettore della “Kriminalpolizei” del Terzo Reich, che nel film “Delitto di Stato” di Christopher Menaul è interpretato da Rutger Hauer, è frutto della fantasia dell’autore.

Ma molti incontri che March fa durante le sue indagini sono con uomini e donne delle SS realmente esistiti e la cui sorte, soprattutto nel romanzo di Harris, corre ucronicamente parallela al resto della storia. Prescindendo per un secondo dalla trama, che non è nemmeno così intricata e coinvolgente, dati i presupposti di curiosità che può suscitare un libro che si colloca in uno spazio temporale a metà tra il vero e l’immaginato, è proprio l’impatto che l’idea di Harris ha sul pubblico che suscita interesse.

Non è certamente il primo romanzo ucronico che viene scritto, ma per la porzione di storia che va ad abbracciare è, senza dubbio, come si direbbe comunemente oggi, uno dei più “iconici“. Chi ha provato ad accostare poesia, cinema, arte, letteratura e persino satira e fumetti alle tremende vicende intercorse in Europa, segnatamente in Germania, a cavallo tra la Prima guerra mondiale e la seconda metà del Novecento, non ha potuto non fare i conti con la difficoltà di mantenere intatto il risptto per la tragedia globale.

Se la guerra in generale, con tutto il suo portato di orrore, è oggetto anche di scherno e di irriverenza da parte della critica giornalistica e della fumettistica, nonché della Settima Arte o del teatro, la Seconda guerra mondiale nello specifico deve essere trattata con un differenre riguardo, per la ragione che è facile immaginare: non si è trattato di uno scontro tra potenze che si sono affrontate facendo subire ai popoli le “solite” ripercussioni (molto tra virgolette l’aggettivo…).

Il programma del “Lebensraum” è pure un dettato politico-antropologico ispirato da una teorizzazione razzista e suprematista germanica; ma è anche il primo passo verso la sistematizzazione olocaustica, verso la consuetudine organizzatissima di deportazioni che, ben prima della Conferenza di Wannsee, sono pianificate per istruire la guerra ad un ruolo diverso da quello che aveva avuto fino ad allora nella storia dell’umanità.

Harris, nel disegnare con sufficiente accuratezza il mondo in cui inserisce la vicenda dell’investigatore March (qualche distonia e qualche errorino storico c’è nel libro, ma si possono perdonare e trascurare perché sono trascurabili), non si esime dal contestualizzare i fatti reali e, potrà pure sembrare un paradosso, lo fa proprio quando fa superare al lettore il confine tra realtà storica e irrealtà ucronica.

Il tempo così sfugge a sé stesso, diventa irrealizzabile, scorrendo in una serie di colpi di scena che, a poco a poco, fanno dimenticare che ci si trova in una Germania in cui ad est, in uno “Spazio vitale” molto più ampio di quello persino sognato dalla megalomia del Führer, pullulano i campi di concentramento e di sterminio, mentre l’Europa è divisa tra una Comunità alleata del Terzo Reich e una zona balcanica satellite dell’impero di Hitler, mentre gli Stati Uniti d’America hanno risolto la questione del conflitto nel Pacifico, mentre il mondo sembra non sapere nulla di quello che avviene ad Est.

Il punto di svolta della narrazione, la porta aperta sull’Ucronia harrisiana è la sopravvivvenza del macellaio di Praga, di quello che il caporale divenuto duce dei tedeschi chiamava l'”uomo dal cuore di ferro“: Reinhard Heydrich. Non è mai stato ucciso dagli uomini della Resistenza cecoslovanna. E’ vivo e, morto Himmler, pare predestinato a diventare il successore designato di Hitler: ha portato a compimento la “soluzione finale” e quindi si è guadagnato la specialissima stima dell’inventore del Nazionalsocialismo.

Da qui in avanti, il romanzo, descrive anche come si vive nel Grande Reich tedesco del 1964: del resto, la vita familiare di March è parte del canovaccio che si svolge di pari passo con segreti di Stato, intrighi interni e internazionali e lo sarà fino alla fine, fino all’ultima pagina. La pace tra Berlino e Washington diventa un punto essenziale della politica hitleriana; così importante da indurre il Führer ad eliminare non solo le prove dell’Olocausto ma persino i gerarchi che vi hanno direttamente preso parte.

Nessuno deve sapere. Così le alte sfere delle SS subiscono la medesima sorte, come nemesi che non attende la trasformazione del presente in passato, dei prigionieri costretti a cremare i cadaveri dei loro simili e uccisi a loro volta dopo la fine delle operazioni di sterminio. La popolazione vive, contrariamente a quelle che sono le rigide direttive di un ideologismo nazista che non può essere altrettanto ferreamente imposto, in un relativo contesto di consumismo. Harris, forse un po’ spregiudicatamente, fa persino suonare i Beatles ad Amburgo.

L’Inghilterra, in cui regna un Edoardo VIII di fede nazista, mentre Elisabetta II ha trasferito corte e governo in Canada ed è sovrana del Commonwealth rimanente, rimane una potenza di un certo livello ma dipendente dall’alleanza con Berlino. Stranamente l’autore, in questo mondo straordinario e aberrante al tempo stesso, non fa alcun cenno né a Mussolini né a Stalin. Della Russia sappiamo che è stata privata della zona di Mosca e del Caucaso, ridotta (si fa per dire…) al resto del territorio sovietico che si estende comunque sempre fino al Mare del Giappone.

La Cina è, al pari della Svizzera, uno Stato neutrale, mentre il resto del Medio Oriente, l’Africa e l’America Latina sono zone e continenti in cui vige lo stato coloniale a tutto tondo. La guerra, dunque, continua solamente contro l’Unione Sovietica, mentre il resto del pianeta prova a fare la pace con Hitler in una sorta di bipolarizzazione in cui gli opposti non sono USA e URSS ma USA ed Inghilterra da una parte, Germania e alleati (Europa compresa con dittatori come Francisco Franco in Spagna) dall’altra.

Come per qualsiasi altro libro, anche “Fatherland” lo si può leggere in modo molto soggettivo, dandogli la propria interpretazione in senso stretto, riguardo uno o più personaggi, oppure in senso lato, riferendosi quindi all’ucronia in cui Harris ha pensato di farli vivere, di farli incontrare e scontrare. Ma, pure in questo normale contesto di empatia tra chi legge e chi è letto, l’opera di Harris – a differenza di altre – ha qualcosa in più o, più facilmente da dirsi più che da spiegarsi – qualcosa di molto diverso.

La spiegazione di questa sensazione sta, come già accennato, nella scelta del contesto storico in cui far iniziare la vicenda di March: non un giallo ambientato nella Germania guglielmina, magari pure di fine Ottocento, con i chiaroscuri di qualche rete spionitica magari dal sapore anche un po’ francese: una storia al pari di quella del capitano alzaziano Dreyfus, di un ufficiale di origine ebraica su cui sono stati scritti innumerevoli testi e su cui sono stati fatti anche molti spettacoli teatrali, nonché film in epoca abbastanza recente.

Harris sceglie il buio pesto del Terzo Reich, non le sfumature di grigio delle società borghesi, ma la morbosità che crea la mostruosa creatura hitleriana, che oltrepassa tutti i confini della moralità, della politica, del diritto, dell’umanità. Anche l’eroe fa fatica a venire avanti nella scena, guadagnandosi le simpatie del lettore che lo vorrebbe come antinazista a tutto tondo, ma che invece è costretto, da vicende familiari e da una certa fedeltà alla nazione, a dibattersi prima di tutto con sé stesso per quello che la coscienza gli detta.

E tutto quello che prova è, ovviamente, in contrasto con le leggi naziste, con il totalitarismo instaurato dal partito, dal regime, dal cancelliere che sta per compiere settantacinque anni. Anche immaginare Adolf Hitler a quell’età è uno sforzo non da poco. Si può accennare un sorriso mesto, quasi nervoso, perché in verità molti complottisti hanno sostenuto che il tiranno fosse fuggito da qualche parte in Sudamerica e che fosse protetto in una comunità di fedelissimi dediti alla fondazione di un futuro Quarto Reich.

Cosa che Harris non fa. Non crea una Germania nazista altra da sé stessa, ma le permette di continuare nella sua asfittica e genocidiaria storia proponendole così di pensarsi non democratica e liberale come è stata dopo la fine della guerra, ma ancora sotto la bandiera con la svastica. E’ un ottimo esercizio di autoanalisi, di introspezione, di riesame continuo delle tendenze che ci possono assalire quando pensiamo che la soluzione di chi pensiamo sia un problema stia nell’eliminazione del problema stesso.

“Fatherland” non ha pretese moraliste. E’ un semplice romanzo ucronico. Ma non va sottovalutato, sminuito o ridimensionato ad una etichettatura così troppo semplicistica e liquidatoria. Se ha un fascino che lascia un po’ interdetti, un motivo ci sarà. Magari anche un altro rispetto a quelli che qui si è provato a spiegare da un soggettivissimo punto di vista.

FATHERLAND
ROBERT HARRIS
OSCAR MONDADORI
€ 12,00

MARCO SFERINI

27 marzo 2024

foto: particolare della copertina del libro


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