In tanti hanno saputo di aver perso l’impiego solo quando, recandosi in ufficio dopo le vacanze di Pasqua, si sono visti sbarrare l’ingresso. Altri avevano già ricevuto la comunicazione del licenziamento durante le feste, per telegramma o e-mail, ma si sono recati ugualmente al lavoro dietro sollecitazione dell’Ate, il sindacato degli impiegati statali.

«Torneremo nei nostri posti di lavoro, non solo perché sono la fonte del nostro sostentamento ma anche perché siamo dinanzi a una disintegrazione dei diritti mai vista nella storia del nostro paese», aveva scritto l’Ate in una nota.

Per tutti loro, i circa 15mila impiegati pubblici licenziati senza pietà da uno dei decreti anti-deficit del presidente Javier Milei, l’unica risposta del governo è stato un imponente dispiegamento delle forze di sicurezza a guardia della maggior parte degli organismi statali, mirato a impedire, peraltro invano, atti di protesta e assemblee nei luoghi di lavoro.

L’episodio più grave, simbolicamente dirompente, ha avuto luogo proprio lì dove nessuno, fino a un anno fa, avrebbe mai immaginato che potesse accadere: nella ex Esma, la scuola per la formazione degli ufficiali della Marina argentina di Buenos Aires diventata il più famigerato centro clandestino di detenzione, tortura e sterminio durante la dittatura militare e poi, il 24 marzo del 2004, trasformata dall’allora presidente Néstor Kirchner nel luogo della memoria per eccellenza oltre che nella sede di svariate istituzioni pubbliche, organizzazioni per i diritti umani e associazioni della società civile, dalle Madri e dalle Nonne di Piazza di Maggio all’associazione Hijos, dall’Archivio nazionale della Memoria fino alla Segreteria dei diritti umani della nazione.

È davanti a quell’edificio-museo proclamato patrimonio Unesco nel settembre del 2023 – e il cui nome ufficiale è oggi quello di “Spazio per la Memoria e per la promozione e difesa dei diritti umani” – che si sono minacciosamente schierati, per la prima volta, uomini della polizia federale armati e con gli scudi antisommossa, decisi a intimidire i lavoratori licenziati che, a seconda dei casi, protestavano o piangevano. «Cosa siete venuti a fare, a spaventarci?», ha protestato il capo della Segreteria dei diritti umani Alberto Baños: «Non siamo criminali, i criminali sono stati quelli che hanno commesso reati in questo stesso luogo, anche loro vestendo un’uniforme».

Tutto «personale non necessario», secondo il portavoce presidenziale Manuel Adorni. Eppure, hanno protestato i lavoratori, «quello che facciamo non può essere interrotto»: si tratta, spiegano, di tutta una serie di attività irrinunciabili, relative ai processi per crimini di lesa umanità, all’accompagnamento delle vittime di violazioni dei diritti umani, alla salvaguardia degli spazi della memoria in tutto il paese, all’assistenza alle vittime di violenza familiare e sessuale.

Ovunque, del resto, si sono presentati gli stessi atti di intimidazione, dal Ministero del Capitale umano – dove a perdere il lavoro sono stati 1.200 – agli ex ministeri dell’Educazione e della Giustizia (dove sono stati licenziati in 500), fino alla Segreteria dell’Agricoltura e al Servizio meteorologico nazionale, che di impiegati ne ha persi 54, come ha reso noto il portavoce dell’organismo Lucas Berengua, il meteorologo più giovane del paese, anche lui vittima dei tagli.

Nella sede dell’Inadi, l’Istituto nazionale contro la discriminazione, la polizia, per esempio, ha fatto violentemente irruzione per impedire che i lavoratori tenessero un’assemblea. E, per varie ore, nei corridoi e negli uffici ministeriali c’erano più membri delle forze di sicurezza che lavoratori. «Non ci sono soldi per comprare il cibo, non ci sono per acquistare medicine, ma si trovano eccome per reprimere», ha denunciato il segretario generale dell’Ate Rodolfo Aguiar.

In questa nuova ondata di licenziamenti, giustificati da Adorni con la necessità di «ridurre i costi», la motosega si è abbattuta in particolare sui lavoratori precari, ma non sono stati risparmiati neppure quanti avevano un contratto a tempo indeterminato e neanche gli impiegati di fascia protetta, come malati oncologici o persone con disabilità. Anche loro, per il governo, sono «la casta».

E se è questa l’Argentina dell’era Milei, tutto indica che si tratti solo di un antipasto. Perché anche quegli impiegati pubblici che hanno conservato il posto si sono visti prolungare il contratto di appena tre mesi. Cosicché, di fronte all’auspicio di 70mila licenziamenti espresso da Milei, non ci sono molte speranze che a giugno l’incubo non si riproponga per altri 50mila lavoratori statali, i quali vivranno i prossimi 90 giorni con questa spada di Damocle sul collo.

A meno che, è ovvio, qualcuno non fermi il presidente, contro cui la Upcn (Unión del Personal Civil de la Nación) ha già annunciato una class action: «Mediante questi atti arbitrari e discriminatori – ha dichiarato il segretario generale Andrés Rodríguez -, vengono violati i diritti sanciti dall’articolo 14 bis della Costituzione, secondo cui l’impiegato pubblico è soggetto a una tutela preferenziale, con la garanzia della stabilità dell’impiego».

Al momento, la risposta dei lavoratori statali è stata quella di convocare per oggi uno sciopero unitario con una mobilitazione dinanzi al Ministero dell’Economia. Ma è evidente che di ben altre forme di lotta sembra aver bisogno il paese, se non vuole essere fatto a pezzi dalla motosega di Milei.

CLAUDIA FANTI

da il manifesto.it

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