«Kurt, scrivi tu la maggior parte dei testi?» «Sì, ma non so di che parlano». Cobain in una conversazione di aprile 1990. Ci ripensa su: «A noi non importa coltivare un’immagine (…) Se ci mettessimo a discutere su un argomento qualsiasi con qualcuno, avremmo la peggio». Rileggere le interviste di Kurt Cobain ripubblicate in questi giorni da un libretto di minumum fax (Territorial Pissing) è come aggirarsi tra le rovine di un mondo scomparso. Trent’anni fa esatti, il 5 aprile 1994, il leader dei Nirvana si toglieva la vita.

Di un evento che oggi avrebbe fatto esplodere istantaneamente ogni social, noi che c’eravamo scoprimmo qualcosa di più a notte fonda quando la tv Cnn rimandata in onda sulle frequenze di Telemontecarlo mostrò un breve servizio girato di fronte alla casa di Seattle, coi ragazzi, le ragazze in lacrime e forse qualche frammento della lettera di addio («il miserabile, autodistruttivo, funebre rocker che sono diventato»). Il mezzo è anche il messaggio. L’icona avrebbe preso forma nei giorni, ma pure nei mesi e negli anni successivi.

Questa storia dei testi. Di cosa parlano le canzoni di Nirvana? «Ho decine e decine di quaderni e quando devo scrivere un testo rubo da quelli – spiegava il cantante al critico inglese Jon Savage – Quasi tutti i miei testi sono pezzi di poesie mischiate assieme». «Spesso scrivo all’ultimo momento, perché sono pigro – ripete a una tv canadese – E poi mi devo inventare le spiegazioni».

La verità è che non c’è quasi mai niente da spiegare nelle canzoni dei Nirvana. È teenage angst, rabbia adolescenziale che ha pagato bene, come si tormentava lo stesso Cobain in un verso di Serve the Servants e tutti la possono capire se vogliono, benché il processo non sia esente da rischi.

«Canto quasi sempre dallo stomaco. Da dove mi fa male», dice ancora Kurt a Savage. «È da lì che vengono il dolore e la rabbia?» «È sicuramente lì». Una gastrite psicosomatica lo tormentava oltre ogni diagnosi plausibile, al punto da rischiare la dipendenza da eroina e ogni tipo di psicofarmaco (a Roma lo portarono in ospedale in coma), sfiorando il suicidio accidentale pur di liberarsi dal dolore. Risuonava nella rabbia della voce prima che nel senso delle parole. Un grumo di adolescenza, paura dell’abbandono e della solitudine.

Ammiratore di William Burroughs e dei suoi procedimenti di scrittura automatica, istintivo teorico dell’immediatezza punk («non so suonare come Segovia. Ma probabilmente Segovia non saprebbe suonare come me»), Kurt Cobain misurava in ogni sua canzone la distanza sempre maggiore che lo separava dall’etica comunitaria con la quale era cresciuto a Seattle, nei circoli dell’hardcore punk negli anni del primo reaganismo.

Si trattava di difendersi dai media, dallo spettacolo, dalla separatezza delle popstar, dal loro sessismo e fascismo morbido, da quello che con una parola si chiamava mainstream (parola ancora in voga, smarrita tra complottismi della Rete). Il contrario di mainstream era alternativo. Alternativo è oggi la parola più smarrita di tutte. Se il ricordo di Cobain ha un senso, tra i tanti di questi giorni, potrebbe essere l’esercizio di immaginarsi com’era il mondo quando c’era una via di fuga. Vera, simbolica, o presunta che fosse.

«Conosco gente che ha avuto l’opportunità di intervistarti e hanno detto “ah odia le interviste. Non vuole parlare di niente”», gli dice a un certo punto la reporter di una tv canadese. C’è stato un tempo in cui i like non si andavano a cercare, le interviste potevano essere delle avventure. Non tornerà più, ma nelle canzoni dei Nirvana l’Utopia era un ultimo spiraglio di luce e questo non era facile da capire allora. «Era la nostra vita prima che appaltassimo la nostra consapevolezza a internet», ha detto lo scrittore Douglas Coupland in un’intervista recente che ha colpito molti, perciò è stata molto condivisa.

ALBERTO PICCININI

da il manifesto.it

foto: screenshot You Tube