«Dopo essermi disprezzata, odiata e fatta del male penso che la cosa migliore che possa fare, come auguro a chiunque, sia di permettermi finalmente di essere me stessa. Stop a chi mi dice come devo essere, come devo comportarmi, sia come persona, sia quando sono sul palco».

Lucida, decisa: dieci anni fa Sinéad O’Connor – intervistata da questo giornale – si (ri)presentava al pubblico sull’onda della pubblicazione di quello che sarebbe stato il suo penultimo album da studio, How About I Be Me (And you Be You?).

Una vita fa e un destino che la vedrà combattere negli anni successivi contro i fantasmi della depressione, problemi esistenziali e di salute e segnata inesorabilmente dal suicidio del quarto figlio, Shane, morto nel 2022 a 17 anni. Sinéad O’Connor – come riferisce l’Irish Times al momento di andare in stampa senza precisare i dettagli del decesso – è morta a 56 anni nella sua casa di Dublino. Dieci album, un certo numero di antologie, una personalità debordante e una vocalità incredibile che la porta ad inizi anni ottanta a diventare una delle figure più importanti della musica britannica.

Famiglia numerosa – il fratello Josph O’Connor è uno scrittore di successo – Sinéad è precoce nel suo approccio con la musica: impara a suonare la chitarra e a comporre unendosi – appena quattordicenne – al gruppo irlandese In Tua Nua. Nel 1985 il grande salto e la decisione di trasferirsi a Londra per lavorare a quello che sarebbe stato il suo primo disco, The Lion and The Cobra (1987), dove mette a fuoco tutto il suo talento. Nove pezzi caleidoscopici dove spazia tra rock pop e folk. A unire tutto una voce dalle tonalità altissime che sa essere angelica ma anche cruda, tragica e passionale.

Ma è solo l’inizio perché il successivo I Do Not Want What I Haven’t got (1990), la vede ancora più sicura, matura e penetrante nella ricerca di timbri e di interpretazioni giuste per composizioni in cui affronta anche tematiche sociali. Scrive tutte le canzoni, tranne una che ’ruba’ dal repertorio di Prince, Nothing Compares to U. Una ballata scritta dal folletto di Minneapolis cinque anni prima per un suo progetto collaterale con la band The Family. Una storia di amori dolenti e amanti abbandonati con uno sfondo funk che all’epoca finisce un po’ sotto traccia, ma la versione di Sinéad è spiazzante: evocativa, struggente.

Le aperture elettroniche e un superbo arrangiamento di Nellee Hooper e un video diretto da John Maybury, fanno il resto: diventa un’istantanea numero uno in tutto il mondo, Stati uniti compresi dove il brano viene incoronato dalla bibbia musicale a stelle e strisce, Billboard, come ’singolo del 1990’.

I matrimoni omosessuali? Gesù non sarebbe stato così bigotto da sostenere il contrario. Lui era per l’amore. Un bigotto invece è chi dice di amare Cristo, ma è contro l’amore (Sinéad O’Connor)

Ma la personalità di Sinéad è troppo debordante per accettare i dettami dello show business imposti dal successo del disco che toccherà i 7 milioni di copie vendute. Rifiuta il Grammy che le viene assegnato e torna in sala di registrazione. Ne esce due anni dopo con un album completamente fuori da ogni logica commerciale: Am I Not Your Girl? Mette insieme brani estratti dal repertorio di icone come Billie Holiday, Sarah Vaughan e si cimenta anche in classici da musical: Don’t cry for me Argentina da Evita e I want To Be Loved by You, dove rende omaggio a Marilyn Monroe.

Un fiasco clamoroso che si associa a polemiche extra musicali: nell’ottobre del 1992 mentre canta War di Bob Marley al Saturday Night Live, cambia le parole finali del testo per scagliarsi contro la pratica della pedofilia denunciata contro alcuni esponenti della chiesa cattolica negli Stati uniti. Al termine dell’esecuzione, strappa davanti alle telecamere una foto di Wojtyla.

I travagli di una vita dura vengono raccontati dalla regista Kathryn Ferguson nel documentario Nothing compares (2022), dove la cantante si racconta in prima persona: traumi e un’educazione dura.

Sinéad definisce senza mezzi termini la genitrice «una bestia», specificando che la colpa era della società in cui è cresciuta la madre violenta, e di generazioni «di madri prima di lei». E quindi l’influenza nefasta della Chiesa cattolica in Irlanda. La produzione discografica  risente dei travagli personali: è frammentaria anche se con spunti interessanti, come in Faith and Courage, pubblicato dall’Atlantic nel 2000 che alterna pop, reggae e folk irlandese. Con ospiti di prestigio come Dave Stewart, Brian Eno, Adrian Sherwood.

Si sposa e divorzia, incontra l’Islam – nel 2017 cambia il suo nome all’anagrafe in Magda Davitt e nel 2018 in Shuhada Sadaqat, alternando fasi di lucidità a momenti di totale depressione. Nel 2021 esce la sua autobiografia Remembering e il 7 gennaio 2022, la morte del figlio Shane. Ieri l’epilogo.

STEFANO CRIPPA

da il manifesto.it

foto tratta da Wikimedia Commons