Domani Lidia Menapace avrebbe compiuto cento anni. Nacque, infatti, il 3 aprile del 1924 a Novara, condividendo i natali nella brumosa città con l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Personalità così diverse non si potrebbero immaginare.

Unite però da un antifascismo (certamente con gradazioni diverse) che portò lei e lui sullo stesso tavolo di un Tribunale del popolo dopo la guerra che doveva giudicare i colpevoli dei delitti contro la Resistenza. Duri nelle valutazioni, ma entrambi contrari alla pena di morte proponevano al presidente del Consiglio Ferruccio Parri di convertire la condanna capitale in ergastoli o in carcerazioni di venti-trent’anni.

Tale prezioso ricordo si trova in uno dei volumi pubblicati dalla deliziosa casa editrice salentina Manni, nel cui catalogo si rintracciano diversi titoli da leggere o rileggere come Canta il merlo sul frumento (2015). Il titolo già ci racconta molto dell’autrice: cattolica e poi comunista, coltissima (non solo erudita) riprendeva la vulgata dei canti ecclesiali, quando il «latinorum» popolare aveva tradotto il solenne «Tantum ergo sacramentum» in quel gioioso «Canta il merlo sul frumento». Per dirci, forse, che nulla è davvero sacrale e tutto si può tradurre attraverso il linguaggio.

Gli studi letterari e l’insegnamento nelle scuole prima fino all’incarico all’Università cattolica di Milano l’avevano portata a studiare l’insegnamento della parola e della scrittura indagando sulle modalità di renderle popolari contro ogni elitismo. Sono riflessioni tratte da un capitolo di un volume davvero utile e completo («Le cento maniere di non insegnare l’italiano», in Un pensiero in movimento, a cura di Carlo Bertorelle e Mariapia Bigaran, edizioni Alphabeta Verlag, Merano (Bz), 2023).

Ecco, una parte della vita di Lidia Menapace si svolse tra licei e aule universitarie, fino a che l’arrivo del ’68 portò la rivoluzione morale e intellettuale in una acuta e brillante attivista che si dimise con lettera al segretario della Democrazia cristiana, dopo averne rappresentato i colori nel 1964 a Bolzano come prima donna assessora (agli affari sociali) nella provincia autonoma.

La rottura l’aveva portata a condividere l’occupazione della ultraconservatrice Cattolica, dove perse il posto nell’accademia a causa di un saggio – Per una scelta marxista- che allora toccava il nervo sensibile dello smottamento di tante e di tanti verso i lidi del cattocomunismo.

Tuttavia, la scelta non fu l’ingresso nel Partito comunista italiano, un’altra Chiesa che Lidia Menapace non gradiva, bensì il manifesto, avvistato come rivista e come gruppo politico grazie all’antica conoscenza di Lucio Magri – dalla biografia a tratti simile – e all’incontro pressoché casuale ma illuminante con Luciana Castellina.

L’amore fu a prima vista, perché quel mondo era un unicum, profondamente radicato ancorché segnato dall’eresia nel comunismo democratico e nel contempo aperto alle novità dei movimenti allora incombenti e fortissimi. Un gruppo un po’ anomalo, estremista ma non troppo, strutturato ma neppure tanto, capace di parlare a Jean-Paul Sartre e agli operai di Mirafiori o dell’Alfasud o ai pastori sardi. Nonché capace di esprimere un’esperienza editoriale, prima la rivista e dal 1971 il quotidiano, considerata un’eccellenza nella storia dell’informazione.

E così Lidia Menapace si trovò ribelle educata in un territorio di ribelli educati e formò con Luciana Castellina e Rossana Rossanda un terzetto di dirigenti donne che fecero di quell’esperienza un universo non solo maschile (lo fecero insieme alle loro compagne) secondo i dettami patriarcali egemoni. Eppure, l’ala maschile era a sua volta di eccezione: Lucio Magri, Eliseo Milani, Aldo Natoli, Michelangelo Notarianni, Valentino Parlato, Luigi Pintor, per citare alcuni nomi senza far torto ai numerosi altri portatori di storie ed esperienze in grado di formare il Pdup per il comunismo, esperienza unica nel suo genere.

Lidia Menapace portò una capacità teorica e riflessiva anticipatrice sui temi del femminismo, di cui è stata massima protagonista, partecipando a lotte e vertenze anche in dissenso con alcuni filoni che riteneva alquanto aristocratici e contribuendo moltissimo al rilancio dell’Unione donne italiane.

Fu consigliera comunale a Roma, consigliera regionale del Lazio e senatrice di Rifondazione comunista nella legislatura del 2006. Non aveva aderito, tra l’altro, alla confluenza del Pdup nel Pci alla fine del 1984, cui anzi si era contrapposta. Nelle istituzioni e non solo portò il vento del pacifismo, che era l’altro polo di riferimento ideale di una esistenza vissuta nella speranza che le culture contrarie al bellicismo soppiantassero la spirale delle guerre.

Come starebbe male oggi Lidia Menapace, che si oppose al rito delle Frecce Tricolori, ad assistere al clima orrendo che viviamo. Sicuramente si sarebbe ritrovata nelle parole di Papa Francesco, che non avrebbe perdonato magari per certe posizioni residuali sulla sessualità.

C’è da dire che, fino all’ultimo, una straordinaria donna capace di indagare la realtà, cogliendone la complessità contro ogni tentazione autoritaria e riduzionista, accettò di essere chiamata solo partigiana. Una parte per il tutto, il tutto per una parte.

VINCENZO VITA

da il manifesto.it

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