Gli anni di Gorbaciov, un cataclisma non annunciato

Gorbacev, ultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica dal 1985 al 1991, premio Nobel per la pace nel 1990. Chi scrive ha avuto la ventura di essere residente in...

Gorbacev, ultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica dal 1985 al 1991, premio Nobel per la pace nel 1990.

Chi scrive ha avuto la ventura di essere residente in Russia durante gli ultimi mesi della presidenza Gorbaciov e nei due anni successivi con Eltsin al potere. Docente ed allo stesso tempo studente alla Università di San Pietroburgo, con un’ottima comprensione della lingua, assistevo a fatti epocali come se avessi un piede impigliato nella Storia.

La fine dell’URSS in quanto soggetto di diritto internazionale e realtà geopolitica,è data dal combinarsi contemporaneo di fattori interni e internazionali, di natura economica, politica, morale (come accade nelle crisi epocali). Tuttavia, il ruolo dell’orientamento ideologico-politico appare qui determinante nella dissoluzione dello stato e del partito.

Ci racconta la storia di un uomo a cui il realismo politico fece difetto ma che cercò di riformare l’economia, la società, la cultura, la politica sovietiche, ostacolato da forze “conservatrici” e incompreso da innovatori “radicali”, agendo come un “rex destruens” che colpisce contemporaneamente i due assi del sistema sovietico, ossia il partito e il piano.

Lo stato che voleva riformare già non si poteva più definire totalitario in senso stretto, avendo perduto ogni cemento ideologico, ma restava comunque rigidamente autoritario e identificato col partito.

Gorbaciov, che pure era stato sponsorizzato come segretario nel 1985 da Andropov era un (comunista?) riformatore che voleva salvare l’idea di trasformazione socialista coniugandola alla democrazia avanzata; voleva una ventata di verità, apertura, libertà e trasparenza per modificare dall’interno un regime di chiusura, omertà e potentati, aggredendo la sovrastruttura politica e istituzionale (la Cina di Deng farà il contrario con l’adesione al capitalismo ma diretto dal Partito iper centrale e immodificabile) .

Il nuovo segretario del Pcus cominciò dal 1986, mettendo in discussione il ruolo del partito e della stessa figura del segretario che non sarebbe dovuto essere più centrale rispetto alla società, quasi a prosecuzione della Primavera di Praga voluta nel 1968 da Dubcek, che infatti riabilitò. La nuova attitudine doveva essere la “glasnost” cioè restituire piena libertà di parola e introdurre il suffragio universale.

Su terreno internazionale avviò il ritiro dell’Armata rossa dall’Afghanistan e pose fine alla dottrina Brezhnev che prevedeva l’ingerenza armata dell’Urss nei paesi satelliti; di fronte al persistere dei blocchi militari in Europa, c’era ancora il Patto di Varsavia (chiuderà i battenti nel 1995 ) e l’Alleanza Atlantica (che c’è ancora), avanzò la proposta di una “Casa comune europea dall’Atlantico agli Urali” in una prospettiva di pace, disarmo e di integrazione di popoli e sistemi; aprì lo spiraglio all’unificazione della Germania, terribile e difficile per un paese massacrato dalla furia nazista nella seconda guerra mondiale, consapevole che il Muro di Berlino non poteva durare, e infatti crollò nel 1989, ma avendo l’assicurazione americana e atlantica che la Nato mai si sarebbe allargata a est; trattò veramente con il presidente Usa Ronald Reagan l’eliminazione delle armi strategiche nucleari.

È sotto il suo governo che gli ultimi prigionieri politici furono rimessi in libertà. Allo stesso tempo ha difeso il suo mondo anche a costo di clamorose falsificazioni, è il caso del terribile incidente alla centrale di Chernobyl, e di risposte violente alle proteste popolari, dal Caucaso ai paesi del Baltico. Gorbaciov aveva preso le distanze dal Cremlino nel corso degli ultimi anni, nonostante il sostegno offerto nel 2014, quando la Russia annetteva la Crimea. Quella di Mikhail Gorbaciov rimane per i russi una delle figure più controverse degli ultimi decenni. Lo dimostra l’imbarazzo del governo sui funerali di stato.

A metà anni Ottanta in pochi avrebbero scommesso sul crollo dell’Urss: il paese era largamente pacificato, le proteste politiche praticamente assenti e il dissenso marginale; dal punto di vista economico gli standard di vita, venivano da due decenni di crescita.

La situazione economica, tanto nelle analisi degli economisti sovietici “riformatori” che in quelle degli studiosi occidentali non appariva affatto catastrofica anche se il meccanismo economico incontrava crescenti problemi nell’impiego efficiente delle risorse e nell’introduzione di nuove tecnologie che consentissero aumenti di produttività. I trend macro economici segnalavano un’economia stagnante e un modello di crescita in crisi evidenziando criticità importanti per un paese con ambizioni egemoniche a livello globale, mentre i costi di mantenimento dell’area di influenza erano ormai insostenibili.

È proprio sul progetto di contrastare il declino economico e di passare ad una fase di sviluppo intensivo, utilizzando a pieno le grandi potenzialità dell’economia centralizzata e le risorse dello sterminato paese, che il programma gorbacioviano presentato al XXVII congresso del partito (febbraio 1986) ottiene unanime approvazione. Il programma era quello di una vigorosa ristrutturazione (perestrojka: termine ben noto al lessico economico-politico sovietico sin dai tempi di Lenin) dell’economia, il cui perno fosse la legge sull’impresa statale che avrebbe dovuto conferire loro maggiore autonomia decisionale e attivare la democrazia operaia rendendo elettive le gerarchie di fabbrica, in modo che gli operai designassero i direttori e i quadri, sia tecnici sia del management.

La burocrazia sovietica si era trasformata in una “nuova classe” sui generis, che aveva il controllo, anche se non la proprietà dei mezzi di produzione, che usava per i propri scopi in attrito con gli interessi della proprietà pubblica. Ma andiamo con ordine. La perestroika gorbaceviana iniziò in perfetto stile tecnocratico, dall’alto, come i precedenti tentativi di Kosygin e di Andropov. Prima timidamente: investimenti in beni capitali e un incremento della produttività del lavoro, mantenendo largamente intatto il modello di crescita estensivo su cui si basava l’economia sovietica.

Poi, dal 1987, si fece più audace: l’introduzione di proprietà non pubbliche, soprattutto cooperative, e la responsabilizzazione delle imprese che venivano rese autonome all’interno di una cornice socialista; il Gosplan, il Comitato statale per la pianificazione, avrebbe stabilito i target di massima, ma le strategie di implementazione sarebbero state decentralizzate. Ad ogni modo, fino al 1988 la situazione economica interna dell’URSS non si presenta in forme drammatiche, il rublo è ancora sotto controllo ma con la fine del monopolio statale sul commercio estero, l’autonomia finanziaria delle imprese e, in seguito (1.1.1989), l’autonomia finanziaria concessa alle singole repubbliche, il piano è praticamente disatteso e reso inefficace.

Gli indici produttivi calano, ogni impresa cerca di arrangiarsi come può, il rublo si deprezza rapidamente, cominciano a scarseggiare i beni di prima necessità. Dal punto di vista dei rapporti economici, il 1990 è un anno cruciale: repubbliche e regioni autonome tra la primavera e l’estate, si muovono autonomamente e in modo difforme rispetto al mercato comune dell’Unione.

L’organizzazione economica dell’intera Unione Sovietica è fortemente indebolita. Nel giro di pochi anni una serie di leggi e di decreti della perestrojka economica hanno sortito l’effetto di demolire il sistema fondato sul piano e sull’impresa statale: si ha il caos e disgregazione; per i cittadini sovietici la perestrojka è diventata una catastrofe.

Né Gorbacev né quasi tutti gli altri membri della classe dirigente sovietica avevano le conoscenze e capacità per gestire la riforma di un sistema economico strutturalmente ostile all’innovazione tecnologica e produttiva e dunque condannato alla stagnazione. Conoscenze e informazioni non circolavano liberamente neanche al vertice.

Quando Andropov all’inizio degli anni Ottanta reclutò Gorbacev in un gruppo di lavoro sui problemi dell’economia, si rifiutò di mostrargli il bilancio dello Stato. Un anno dopo, lo stesso Andropov commentava: “Non conosciamo il Paese in cui viviamo’’. L’ideologia socialista, l’idea che il sistema economico fosse più solido di quello che poi si rivelò, il timore di andare a uno scontro frontale con i potenti interessi dell’industria di stato e del mastodontico settore militare, la paura delle devastanti conseguenze sociali e dunque politiche di una ristrutturazione industriale potenzialmente senza paragoni nella storia, tutto questo portò a misure inefficaci e contradditorie innescando una spirale economica discendente che tolse legittimità a Gorbacev.

Gorbacev, (non erano più i tempi di scatenare purghe di massa) intendeva costruire una nuova legittimità per il suo progetto politico e per l’autorità centrale di Mosca, appoggiandosi sull’opinione pubblica in opposizione all’apparato. Sottovalutando però alcune circostanze fondamentali.

In primo luogo la crisi economica che seguì l’inizio delle riforme, e che era forse difficile da evitare data appunto la struttura poco flessibile del sistema sovietico, alienò immediatamente la popolazione. Poi, la progressiva rimozione del partito, infrastruttura vitale non solo per il coordinamento dell’economia ma anche unico garante del controllo politico sulla nomenklatura locale, creò un vuoto di potere che fu riempito dallo stesso apparato che si voleva combattere.

La crisi economica degli anni 1989-91 è il risultato non della stagnazione degli anni precedenti, ma della politica economica seguita alla perestrojka.

Su tale malcontento fanno leva diversi ma convergenti progetti politici che vanno prendendo forma e si organizzano in partiti di fatto: quello del nazionalismo separatistico (in particolare dell’Ucraina e delle repubbliche baltiche) e quello della controrivoluzione sociale neoliberista, rappresentato da Eltsin (distruzione radicale delle forme di proprietà statale, delle garanzie sociali per i lavoratori, tra cui la piena occupazione, e di tutto quanto rimane delle precedenti istituzioni sovietiche, in primo luogo l’Unione), appoggiato sempre più apertamente dai paesi occidentali, i quali, dopo aver “conquistato” l’Europa centro-orientale, intendono avere mano libera sulle ingenti fonti di materie prime dell’URSS e sul suo mercato (la rottura del sistema sovietico ne costituisce un presupposto indispensabile).

A formulare il nuovo quadro legislativo che accompagna la rottura del sistema economico fondato sui vincoli imposti dalla proprietà statale e dal piano, concorrono oramai i nuovi poteri emersi con le riforme che, delineate alla XIX Conferenza del PCUS del giugno 1988, cancellano l’articolo costituzionale che sanciva il monopolio del potere politico del PCUS, danno vita a parlamenti eletti in base a candidature multiple e istituiscono nell’URSS e in tutte le 15 repubbliche, un sistema presidenziale con elezione diretta del presidente da parte del popolo.

In molti hanno sottolineato come l’errore esiziale di Gorbachev fu la contemporaneità delle riforme politiche ed economiche, che generò un caos incontrollabile, questo mentre Deng Xiaoping portava i carri armati a Pechino e purgava il partito; ma tanto una svolta democratica quanto il pugno di ferro hanno bisogno di una qualche forma di legittimità interna che nel caso di Gorbachev era totalmente assente, mentre il regime cinese, forte di una crescita economica elevatissima, poteva permettersi la repressione del dissenso.

È innegabile che la strada riformista di Deng, dittatura politica del partito e apertura al mercato con i settori strategici dell’economia saldamente controllati dallo stato, fosse molto più leninista (il Lenin della Nep) del progetto di Gorbacev.

In questa situazione di anarchia fu Boris Eltsin ad approfittare della situazione non come promotore della rivolta democratica dal basso, come lo si descriveva in Occidente, ma come garante degli interessi della nomenklatura che cercava di trasformare il controllo dei mezzi di produzione in proprietà.

Gorbacev oscilla in continuazione, il suo progetto politico muta di giorno in giorno. Fra l’altro, l’ideologia cui realmente si ispira e che traspariva già dalle pagine del suo best seller, pubblicato in Occidente prima che in URSS, ha ben poco a che fare con le concezioni di Marx e di Lenin: rimuove la categoria di imperialismo in nome di una teoria dell’interdipendenza, in cui scompaiono le differenze tra poli dominanti e poli dominati e mette in soffitta la lotta di classe.

Non è certo l’unico responsabile di una catastrofe non annunciata (nessun “sovietologo” prevedeva nel 1985, o anche nel 1987, 70° anniversario dell’Ottobre, un esito simile). Le forze che nel PCUS si rendono conto della deriva verso cui sta andando il paese,non riescono a coagularsi attorno a una piattaforma politica: da troppo tempo il PCUS brezneviano è molto più vicino ad un organismo parastatale che all’organizzazione bolscevica forgiata nei durissimi scontri ideologici e politici del periodo rivoluzionario.

Quando qualcuno tenta molto tardivamente una sortita per contrapporsi alla piega che ha preso il corso degli eventi e che sta portando alla disintegrazione dell’URSS, lo fa in modo poco organizzato e maldestro: lo strano e rapidamente abortito putsch ghekacepista (Comitato statale per la situazione straordinaria) del 19 agosto 1991, consente a Eltsin di presentarsi come il paladino della nuova Russia libera usando la nuova presidenza della Repubblica Russa, elettiva e dunque più legittima di quella sovietica occupata da Gorbacev, per svuotare il potere del rivale.

Qualche giorno dopo, Gorbacev, dopo una dignitosa difesa dell’idea socialista di fronte alla canea reazionaria del parlamento russo, firma il decreto di scioglimento del partito di cui era Gensek.

A Natale Gorbacev si dimetteva dalla presidenza di un Paese che aveva di fatto già cessato di esistere, non solo già dopo gli accordi tra Eltsin e i suoi omologhi ucraino e bielorusso a Belaveza l’8 dicembre 1991; il referendum sull’indipendenza ucraina del 1 dicembre diede il colpo finale alla possibile esistenza di una qualsiasi formazione statale sovranazionale post-sovietica.

Dalla nostra esperienza quotidiana della politica italiana sappiamo benissimo che istituzioni marce riescono comunque a riprodursi e a durare nel tempo anche quando il loro “compito storico” si è esaurito: ed è dunque più che possibile che l’Urss avrebbe potuto sopravvivere, non fosse stato per le riforme di Gorbachev.

E forse questo avrebbe risparmiato le immani sofferenze patite dal popolo russo e in generale dalle nazioni post-sovietiche negli anni successivi; avrebbe forse anche potuto garantire una maggiore stabilità al sistema internazionale. Il crollo, però, fu talmente repentino che prese tutti di sorpresa: un collasso con pochi precedenti storici che finì non solo per determinare la scomparsa dell’Urss ma anche l’effettiva impossibilità di una seria transizione democratica. Gorbachev passerà alla storia come un personaggio tragico, travolto dagli eventi, ricordato con simpatia in Occidente e astio in patria.

Così come la celebrazione dell’uomo che pose fine alla Guerra Fredda, un merito indiscutibile, non può nascondere il cumulo di macerie che lasciò dietro di sé. Quale, secondo i russi, la colpa di Gorbacev? Avere lasciato il paese in balia delle mire dei suoi storici nemici, ma è un fatto che i sovietici di oggi sono più gli eredi della vittoria del ’45 che del lontano ottobre 1917. Se si vuol cercare la tentazione dell’impero di Putin, si troverà da quella parte, non in Gorbacev.

P.S. Alle uniche elezioni cui Gorbacev partecipò, quelle presidenziali russe del 1996, prese lo 0,5% dei voti. Non aveva capito nulla dei processi che aveva scatenato.

LUCA PAROLDO BONI
già professore alla Saint Petersburg State University (L.G.U.)

18 ottobre 2022

Foto di Irina Zimno

categorie
Comunismo e comunisti

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