Un fronte cede, l’alibi dell’invio delle armi crolla

Le parole del generale, dietro alla collina dove c’è davvero la notte russa ed assassina, non sono di pace, ma hanno il sapore amaro della sconfitta che si paventa,...

Le parole del generale, dietro alla collina dove c’è davvero la notte russa ed assassina, non sono di pace, ma hanno il sapore amaro della sconfitta che si paventa, che si sente nell’aria. Quella in cui rombano i cannoni, fumano le macerie, marciscono i cadaveri dei soldati nemmeno portati in braccio dalla corrente di un fiume.

Ed il Dnepr è sempre più vicino, anche se resta ancora molto lontano. Lo è per i russi che avanzano su Chasiv Yar e su Kramatorsk. Siamo ancora negli oblast del Donbass, ma i confini stanno per essere oltrepassati. La feroce battaglia di Bakhmut è alle spalle ormai. Le truppe di Putin sono armate di tutto punto, quelle ucraine – dice sempre il generale – non hanno più munizioni.

E senza pallottole, senza proiettili da cannone, senza più droni e sempre senza aerei, è difficile fare una controffensiva; figuriamoci vincere una guerra con una superpotenza mondiale. La disperata guerra di Volodymyr Zelens’kyj contro Putin, come nelle altre primavere, arriva ad una penosa resa dei conti. I morti in Ucraina sono oltre mezzo milione. I russi ne contano anche loro centinaia di migliaia.

Nessuno sa il numero esatto dei caduti e dei civili assassinati mentre le guerre sono in corso. Nemmeno dopo che sono finite, a dire il vero, si saprà mai con esatta precisione e sicurezza quanti da una parte e dell’altra sono rimasti feriti e/o uccisi. Di certo c’è che l’Occidente sente gli effetti di un logoramento che si è diluito nel tempo lunghissimo di oltre due anni. I rifornimenti di armi a Kiev sono sempre più scarsi, nonostante gli investimenti promessi e promosso da Biden.

Il fronte mediorientale di Gaza non ha solamente provocato una distrazione – più che giusta – di massa dalle trincee del Donbass al deserto criminale fatto da Netanyahu e Tsahal nella Striscia palestinese. Ha, di più ancora, impegnato le strategie geopolitiche americane, atlantiche e dello scacchiere pressoché mondiale ad una ridefinizione delle priorità.

La NATO rimane concentrata sull’Europa. Gli Stati Uniti guardano anche agli inviluppi della guerra là tra il Giordano e il Mediterraneo. Le forze navali, l’intelligence, gli apparati di sicurezza e il dirottamento di ingenti somme per finanziare lo Stato ebraico in questo sforzo imperialista ed etnocidiario, sono la rappresentazione plastica della dualità della guerra globale oggi.

L’Alleanza Atlantica non può che investire tutta sé stessa nel progetto espansionistico verso i confini della Russia, facendosi supportare della politiche nazionali e comunitarie dei Ventisette singolarmente e nella loro totalità presi: perché l’interesse militaristico è interesse economico e finanziario. Washington non si distrae così facilmente come l’opinione pubblica.

Ma deve guardare anche altrove se non vuole rimanere imprigionata nella tenaglia creata dai conflitti che divampano e incendiano intere comunità di popoli in cui la simpatia nei confronti dell’Occidente è pari a quella che gli ucraini possono avere per i russi in questo momento.

Dunque, solamente nel contesto di questa cornice dualistica si può inquadrare la ferocia disperata del Presidente francese Macron: questo continuo fare riferimento all’invio di truppe di terra al fronte nel Donbass è la traduzione a parole della situazione disperata che vive l’esercito di Volodymyr Zelens’kyj. I generali non usano più minimizzazioni o mezze parole.

Il vicecapo dei servizi ucraini è chiarissimo: la situazione – dice – è grave e – aggiunge – peggiorerà. Perché le armi mancano e, mancando queste, è ovvio che, se il governo di Kiev non si convince ad aprire una trattativa attraverso dei mediatori internazionali, moriranno inultimente decine, centinaia di giovani mandati praticamente al massacro. E moriranno altri civili, altri bambini.

Saranno distrutte altre città e saranno in pericolo scuole, ospedali, infrastrutture. Tutto peggiorerà. Non solo la situazione di un fronte non più assimilabile alla stabilizzazione trinceristica da Prima guerra mondiale. Ora le linee si muovono e i russi avanzano. E proprio mentre la situazione diventa più grave, persino i generali azzardano: forse si dovrebbe ipotizzare una trattativa.

Non un pericoloso giornale filoputiniano, ma il “The Economist” ha titolato: “L’Ucraina sull’orlo del baratro“. Spesso, visto che non ne sentiamo più parlare come due anni fa al telegiornale, riteniamo che la guerra si sia in qualche modo fermata, stabilizzandosi su un immobilismo perdurante. Invece non è così.

I sessantuno miliardi di dollari approvati dal Congresso americano potevano aver lasciato pensare che l’Occidente avrebbe riconsiderato la questione nel suo insieme e, quindi, avrebbe spinto anche l’Europa a dinamizzarsi in questo senso, stanziando altre risorse per armare e armare ancora Kiev. Ma, proprio mentre a Washington e Bruxelles si facevano questi conti economici e politico-militari, anche l’economia di guerra franava davanti all’avanzata russa.

Chi si intende di strategia militare e ne scrive su autorevoli giornali, asserisce che l’esercito ucraino non sarebbe soltanto a corto di munizioni e armi, ma pure di uomini. Due anni di guerra logorano e servirebbero delle riserve da impiegare. Ma mancano. Si avvicina il nove maggio. Il giorno della vittoria dell’Unione Sovietica contro il Terzo Reich. Il giorno della gloria, dell’onore vero. Non quello dei nazifascisti che sfilano a Budapest.

Ed è ovvio che Putin intenda festeggiarlo e farlo festeggiare al suo paese in pompa magna, dopo la sua rielezione plebiscitaria alle presidenziali scorse, utilizzando la ricorrenza (come sempre del resto) per fare la propaganda che qualunque governo democratico e autocratico farebbe in una occasione come questa. La presa di Chasiv Yar è il viatico per sostanziare ancora di più l’accostamento tra la Grande guerra patriottica di ieri e quella di oggi.

Ormai non è più il tempo delle diatribe sull’origine del conflitto: è evidente che la responsabilità dell’attacco all’Ucraina la ha il regime di Putin. Ma la spinta a questa guerra è stata data dalla sfrontatezza imperialistica nordatlantica che ha avvicinato le sue basi ai confini russi e ha invaso, non solo nell’astrattezza di un riferimento geopolitico dal sapore antico, dei vecchi confini dell’URSS e dell’impero zarista ancora prima, uno spazio egemonico di Mosca.

Culturalmente, socialmente ed economicamente egemonico. Si pensi al Mar Nero, alla Crimea, ad Odessa. Zone che venivano associate ai colori ucraini solamente a far data dal crollo del Muro di Berlino e dalla fine del socialismo dell’Est. La NATO e gli Stati Uniti d’America, complice una Europa zerbinesca e priva di una politica estera autonoma (…che dire “indipendente” suonerebbe parossistico…), sono artefici tanto quanto Putin di questo conflitto.

Punto e contrappunto, vellicamento e reazione, botta e risposta. Cinicamente sulla pelle dei popoli: da quello ucraino a quello russo. Macron fa la voce grossa un’altra volta. Non soltanto perché le elezioni europee sono alle porte e qualcuno deve farsi portabandiera della sacralità dei confini delle democrazie rappresentate molto malamente nell’Unione (basti pensare all’Ungheria o, se volete, anche all’Italia meloniana di oggi…).

Ma perché nell’asse franco-tedesco non è mai stato veramente superato il dilemma della prevalenza dell’uno e dell’altro Stato nella contesa economico-finanziaria, e quindi anche militarista, di una Europa la cui guida, proprio in questo triplice significato, vacilla ogni giorno di più. Nella sua prima chiamata alle armi, sembrava che il Presidente francese fosse intenzionato a fare da apripista all’invio delle truppe di terra in Ucraina.

Si parlava allora dell’Armèe de Terre che avrebbe trovato come collocazione i dintorni di Odessa. Forse più una disposizione tattica, per lanciare un messaggio al nemico con cui – almeno ufficialmente – non si è in guerra. La discriminante, infatti, è proprio questa: se oggi Macron parla nuovamente della possibilità di un ricorso agli uomini sul campo e non soltanto (si fa per dire…) all’invio di nuove modernissime armi a Kiev, è evidente che l’asticella della gravità si è elevata.

Ciò che ucraini per primi, ma pure americani ed europei temono, è un “effetto domino“, un cedimento del fronte su vasta scala. Sempre autorevoli osservatori militari che scrivono su importanti quotidiani internazionali, fanno notare come la costruzione di una nuova base aerea russa nei pressi di Belgorod starebbe a significare l’apertura di un nuovo fronte. Ad ovest, puntando direttamente sul fiume Dnepr.

Il che significherebbe, in soldoni, occupare quella porzione di Ucraina chiamata anche “Nuova Russia” nei progetti putiniani e che include tutte le aree in cui vi è una presenza russofona piuttosto importante anche se non maggioritaria come negli oblast del Donbass e della Crimea.

Il vicecapo dei servizi di Kiev ammette che l’avanzata russa è “inevitabile“. Usa un termine non interpretabile, tanta è la disperazione del momento. È il frutto amaro di una politica di completo asservimento alla NATO, agli Stati Uniti e all’Europa come scelta di campo per la propria nazione. Come rivoluzione “democratica“, prosecuzione di quelle finte che si sono susseguite nel corso dei decenni, e che hanno illuso gli ucraini.

Prima lo sguardo ad Est e poi ad Ovest. E infine nell’intercapedine crudele e devastante della guerra. Come se ne esce? Dando ancora più armi a Kiev? Come si può pensare di vincere una guerra imperialista su un campo in cui le armi sono ormai inefficaci allo scopo. Tanto quando vengono inviate quanto, vieppiù, vengono a mancare?

Davvero qualcuno ritiene possibile ipotizzare di trascinare Putin ad un tavolo di trattative in posizione di vantaggio? I fatti dimostrano tutt’altro. E più tempo passa, più la situazione peggiora. I sessantuno miliardi di dollari in armamenti potranno soltanto avere l’effetto di prolungare le sofferenze degli ucraini in questa guerra. La cecità bellicista della NATO, gli appelli di Macron agli interventi di terra, non fanno che condurci verso una guerra veramente europea.

Una guerra in cui a perdere sarà il concetto stesso di Unione, di comunità, di indipendenza continentale rispetto alla Repubblica stellata. Scriviamolo urlandolo: L’INVIO DI ARMI NON RISOLVERA’ IL CONFLITTO. E questa non è una osservazione disfattista, putiniana o etichettabile dai soloni della difesa delle democrazie in Occidente e dei valori liberali (e liberisti al seguito…). É la realtà dei fatti.

MARCO SFERINI

4 maggio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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