Una nuova attualità dell’esistenzialismo nello zig zag delle scelte

Il bivio, la scelta, l’opzione, il dover per forza trovarsi davanti ogni giorno a decisioni che si devono prendere. All’altalena tra il sì e il no non si sfugge....

Il bivio, la scelta, l’opzione, il dover per forza trovarsi davanti ogni giorno a decisioni che si devono prendere. All’altalena tra il sì e il no non si sfugge. Ben dentro gli ingranaggi di una macchina dell’esistente (e dell’esistenza), ogni essere vivente (e qui allarghiamo un po’ il campo di indagine e di testimonianza di Kierkegaard, perché intendiamo includere tutti i senzienti e non solo gli umani) è posto innanzi ad una dualità, quando non anche a scelte multiple. Se questa sia una ferita della ferita di quella vita che per il filosofo danese si sarebbe risolta pienamente soltanto mediante la fede in dio, non lo sappiamo.

Possiamo giocherellare benevolmente un po’ con le parole per esorcizzare la malinconia che serpeggia nelle grandi opere di un allora giovane venti-trentenne che nel temere le scelte non le scansava, ma anzi aveva provato a darne una definizione proprio attraverso l’immedesimazione in diversi stili di vita, in diversi personaggi a cui, mediante pseudonimi, aveva affidato la redazione dei suoi scritti.

Ci interessa scrivere qui del singolarismo kierkegaardiano, di quella che, solo molti decenni dopo, sarebbe stata definita la filosofia progenitrice dell’esistenzialismo nella storia del pensiero, perché ci preme mettere a confronto la sistematicità dell’insieme hegeliano con il suo esatto contrario. Nel bivio o nel trivio, nella scelta che gli si pone ogni giorno, l’essere esistente – afferma il pensatore di Copenaghen – è costretto a passare attraverso un’angoscia che sorge nel momento in cui si rende conto dell’inevitabilità della decisione da prendere.

Affermazione e negazione riguardo un determinato dubbio, problema, comportamento, condotta, non sono congiungibili. Non si può sintetizzare nulla in questo senso: siamo di fronte a due opposti e in quanto tali li dobbiamo considerare come alternativi e non in qualche modo sincretici. Nessuna contraddizione con il sistema di Hegel che, in effetti, non viene di per sé configurato, alla luce dell’esistenzialismo di Kierkegaard, come un anti-esistenzialista. E’ semmai il danese a provare un accesa avversione verso herr professor, perché avanti all’eccezionalità irripetibile del singolo, Hegel pone l’insieme.

Sarebbe un enorme errore leggere nella descrizione dell’angoscia umana, causata dalla ripetitività della scelta nel quotidiano, una interpretazione esclusivamente negativa dell’esistenza. Tutt’altro. Perché, semmai, la prima caratteristica che Kierkegaard attribuisce proprio alla singolarità che lui eleva a essenza dell’esserci è la libertà. E questa si traduce, pur nella dimensione tormentosa del dover operare nel contesto di più opzioni, nell’arbitrio personale, nella più piena capacità decisionale dell’individuo.

Purtroppo (o forse per fortuna, dipende anche qui da una scelta o, per meglio dire, dalla considerazione del proprio punto di vista) il Nostro non ci ha lasciato una teorizzazione della sua interpretazione dell’esistenza, ma ha letterariamente descritto quelle che sono delle “vie” per fare in modo che il singolo possa vivere dominando e superando la contraddizione che lui individua nella scelta angosciosa che è caratteristica inalienabile della persona (e, aggiungiamo, di ogni altro essere senziente, seppure con differenti livelli di apprendimento e di traduzione pratica della conoscenza).

La contraddizione non è, quindi, per Kierkegaard sistemica. Non è schematizzabile, anche se – ammette – è una congruità tipica della vita, le appartiene e vi si esprime non univocamente, perché ognuno di noi è attraversato da esperienze che rendono questa caratteristica, a suo modo, tanto irripetibile quanto lo è la singolarità dell’individuo. Tuttavia, tre sono quelle vie che possono, sempre dentro una concezione fortemente religiosa dell’esserci, essere il passaggio da uno stato di maggiore o minore contraddittorietà.

La corresponsione tra quest’ultima e la sofferenza sta tutta soltanto nella scelta che si opera: in ciò che si vuole essere. La responsabilità della propria esistenza sta dunque non nei condizionamenti materiali, nei rapporti di forza tra le dinamiche economico-sociali, ma nella assolutizzazione della scelta come elemento cardine dell’insoddisfazione o della soddisfazione personale nel più generale quadro di una umanità che, a differenza di Hegel, Kierkegaard trascura come elemento condizionante e – se è permesso dirla marxianamente – fondamentalmente strutturale.

Il “Diario del seduttore” (erroneamente spesso tradotto “di un“) non è riducibile alla descrizione dell’intangibilità delle cose, al subire anche il corso degli eventi nonostante la libertà della scelta di voler vivere appagato dal piacere, senza alcun progetto di vita. Ma, senza dubbio, mette al centro una sofferenza umana che sovviene nel momento in cui questa esistenza del singolo appare completamente scollegata dal resto dei singoli, dal resto del mondo. C’è un avventurismo dongiovannesco che è di per sé la scelta nociva che pone il seduttore di fronte al finale dilemma: perserverare nella superficialità o cambiare vita?

Viene voglia di abbandonare Kierkegaard se il primo istinto nel leggerlo è l’evidenza di una pedanteria anche un po’ moralistica. Ma in realtà, dovrebbe prevalere l’interesse filosofico per una attenzione alle modalità con cui, più psicologicamente che materialmente, l’essere umano si pone nel contesto in cui, proprio per quei rapporti di forza economici e strutturali che il danese non prende in considerazione, è indotto a scegliere proprio in virtù della dualità tra libertà propria e limiti nei confronti delle altre libertà.

Nel momento in cui siamo davanti al bivio, il fatto stesso di dover scartare una opzione potrebbe somigliare ad una violenza che ci imponiamo perché non possiamo fare altrimenti. Difficilmente la scelta trascende dal sacrificio. Se non è dolorosa, quanto meno è titubante sofferenza, perché ci getta nell’incertezza e ci sottrae ad una linearità dell’esistenza che, oggettivamente, non è lineare se non presa nella sua quarta dimensione temporale. E, ben inteso, se consideriamo il tempo come qualcosa di uniforme. Almeno qui, nel contesto terrestre.

La seconda via kierkaardiana è detta dell’esistenza etica. A differenza di quella estetica, si esprime in ciò che noi oggi definiremmo psico-patologicamente la “routine quotidiana“. Lavoro, casa, famiglia, osservanza del dovere, impegno nel proprio ambito, afferenza alle leggi, alla morale, al comportamento consono al “buon senso comune“; in pratica una dedizione esclusiva nei confronti di un conformismo che viene sussunto in un più generale contesto civile, civico ed etico.

L’insoddisfazione per la ripetitività dei comportamenti può indurre – scrive Kierkegaard – ad un disagio piuttosto sostenuto, visto che in questo tipo di vita la scelta diventa praticamente onnipresente poiché nei confronti di sé stessi si ha poco tempo, dedicandolo invece quasi interamente al “senso del dovere“, accostandosi ad un altruismo che non è così poi spontaneo come si potrebbe evincerne. E’ una induzione dettata dalla conformità alle regole, dal seguire viatici che, nonostante siano già precostituiti, impongono tanti bivi e, quindi, costringono alla sofferenza angosciosa di cui si è già fatto cenno.

Benché lontano quasi duecento anni da noi, il pensiero sviluppato da Kierkegaard sembra piuttosto attuale se lo inseriamo nel contesto di una stretta attualità che, benché non abbia nulla (o quasi nulla) a che fare con l’esistenzialismo anti-hegeliano, vi si riconosce perché l’insoddisfazione generata dal sistema capitalistico è materiale, morale, incivile e anticivica al tempo stesso. Se esiste un secolo in cui l’automatizzazione meccanicistica dei comportamenti umani è diventata una costante strutturale della società, è proprio il Novecento in cui l’esistenzialismo viene riscoperto e valorizzato.

Nel pensiero del Nostro non c’è un filo prettamente logico-razionalistico: la sua esplorazione del cammino umano è finalizzata al riconoscimento della vita come un prezioso dono di dio ma, ugualmente, l’esistenza è per lui una profonda ferita che deve essere in qualche maniera sanata. E la sanificazione passa non attraverso l’estetismo e il mero eticismo, bensì tramite la terza tipologia in cui un essere umano può trovarsi, volontariamente, scegliendo una “vita religiosa“. E’ lo stesso Kierkegaard ad ammettere che questa opzione non è da tutti. Varrebbe – dice – soltanto per i “cavalieri dell’infinito“, visto che necessita di un salto di qualità “finale“.

Da Don Giovanni all’assessore Guglielmo, per finire nel biblismo abramitico, là dove il sacrificio della scelta si eleva tanto da toccare la vetta della messa in discussione persino dei propri legami più naturali e intrinseci: quelli con la progenie, quelli con moglie e figli, con i parenti più stretti, con la propria vita che si prolungherebbe e che viene invece recisa dalla volontà di dio per avere la dimostrazione della fede di Abramo.

Emerge qui la contraddizione evidente tra vita etica e vita religiosa; perché nell’attimo in cui Abramo sceglie di sacrificare Isacco non obbedisce più al presupposto morale paterno di preservare al figlio ogni male, di proteggerlo, crescerlo, educarlo e farne un essere umano degno di questo aggettivo. Non sappiamo se Kierkegaard, quando ci espone questa terza opzione ferale e irrazionale, mette qualcosa di sé stesso nella figura di un patriarca che, nel compiere la scelta davvero più dolorosa, mostra la quintessenza della ferita esistenziale.

Una lacerazione intima, introspettiva che si riporta nel mondo là dove la decisione tra due opzione implica il preferirne una a discapito dell’altra e della possibilità per sé stessi di goderne magari le qualità. Ciò che si sacrifica è oggetto e soggetto al tempo stesso dell’atto che viene compiuto: oggetto perché è il frutto di una scelta del sacrificante; soggetto perché è, in parte, la rappresentazione reale di una parte molto intima e recondita dell’essenza umana. Quella di un “es” freudiano, di una istintualità che viene piegata dalla volontà.

Quanto la volontà è davvero sé stessa nel momento in cui noi la adoperiamo e la consideriamo la protesi della nostra libertà di scelta? Davvero siamo così volontaristicamente liberi di scegliere o, semmai, è la scelta che ci condiziona e impone alla volontà di dirigersi dove minore magari è il danno, dove inferiore è il rischio, dove minima è la sofferenza? Domande un po’ marzulliane, ma che sono il punto di arrivo e di ripartenza per considerazioni che non possono attribuirsi la particolarità dell’essere risolutive.

Nemmeno per Kierkegaard esiste una via che sia priva di incongruenze. Quella religiosa – che ci è oggettivamente molto, molto lontana come individuazione della fede come unica cicatrice possibile della ferita esistenziale – è insita in una imperfezione umana che include comunque le scelte e che, quindi, non prescinde dalla sofferenza. Ma, ovviamente, per il filosofo danese è, se vogliamo, il male minore o, meglio ancora, il modus vivendi attraverso cui si raggiunge una sorta di equilibrio tra sé stessi e i tanti bivi e trivi che la vita ci mette innanzi.

La brevità del tempo che dio gli avrebbe concesso, ha impedito a Kierkegaard di chiarire meglio la sua “filosofia del singolo”. Ma anche in mezzo ai suoi pseudonimi, tra le righe di opere che hanno il piacevole senso dell’eternità, perché sono diventate dei classici del pensiero filosofico, la limpidezza dei concetti non è messa in discussione. Il sistema hegeliano lo intimoriva perché prestabilizzava – nonostante la dialettica – tutto quello che ci circondava e ci circonda tutt’oggi.

La singolarità kierkegaardiana è dunque una sorta di rivolta contro la sistematizzazione dei concetti e della realtà attraverso gli stessi? Forse affermare questo è spingersi un po’ troppo in là rispetto a ciò che l’esistenzialismo rinato, riconosciuto e riconsiderato molto tempo dopo la morte dell’ancora giovane Søren. Lasciamo almeno questo interrogativo alla saggezza dei posteri. L’ardua sentenza, in fondo, spetta a loro.

MARCO SFERINI

21 aprile 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Il portico delle idee

altri articoli