La retroattività del decreto Superbonus passa in tarda serata, con Fi che in extremis trasforma un no annunciato fino all’ultimo in astensione e Iv che invece vota con il governo. Succede al Senato ma per il governo sono piuttosto le montagne russe.

Il rischio di andare sotto sulla retroattività del Superbonus incombe per tutta la giornata e già sarebbe una sconfitta cocente. Molto peggio perché a determinarla sarebbe stata una componente della maggioranza. Forza Italia era determinata a bocciare l’emendamento del governo senza la cancellazione del passaggio che spalma in un decennio invece che su 4 anni i crediti maturati già dall’inizio dell’anno e non solo dall’entrata in vigore del decreto.

A salvare il governo, alla fine, è uno scambio col senatore delle autonomie Patton. FdI e Lega votano il suo emendamento che mette al riparo le regioni a statuto speciale e le province di Trento e Bolzano dagli effetti del decreto. Il senatore si eclissa dalla commissione riportando la maggioranza in vantaggio di un voto. Solo a quel punto Fi ci ripensa e si astiene ma il presidente leghista della commissione Garavaglia che, contro la prassi, ha votato, sbotta furioso: «Senza il mio voto e senza Iv l’emendamento non passava».

La folle corsa era iniziata con un Tajani irremovibile. Fi ha appena portato a casa l’impegno a varare la separazione delle carriere in cdm il prossimo 29 maggio, ma al leader azzurro non basta: «È una questione di principio. Nella nostra civiltà giuridica fondata sul diritto romano le norme retroattive non sono ammissibili. Noi votiamo contro». I princìpi sono importanti, e non si può dire che il leader azzurro abbia torto.

Le tasche vuote però hanno peso anche maggiore. Il ministro Giorgetti lo aveva già detto, mettendo addirittura sul tavolo le sue dimissioni: «I soldi sono finiti». Ieri ha un po’ stemperato sull’addio ma ha ribadito in pieno il concetto: «Da questa droga economica bisogna liberarsi e disintossicarsi purtroppo è doloroso». Lo si deve fare, quantifica il ministro, perché altrimenti il costo sarebbe insostenibile: 30 miliardi all’anno per 4 anni.

Il colpo di grazia. Ma lo si deve fare anche perché incombono quei nuovi vincoli europei il cui peso reale Giorgetti confessa solo ora: «Rispettare quelle regole per un Paese indebitato e con tassi alti come il nostro è molto difficile».

Insomma, se da una parte ci sono i princìpi e soprattutto l’esigenza di tutelare le fasce sociali di riferimento, nel caso di Tajani quelle benestanti, le uniche a essersi avvantaggiate della misura voluta con buone intenzioni e massime imperizia dai 5S, dall’altra c’è la ruvida durezza dei conti. Crosetto sbotta: «Se hai un cancro lo togli. Io sarei stato più duro di Giorgetti». Il sottosegretario Fazzolari si sente calato in un horror alla Stephen King: «Il mostro cresce di minuto in minuto. Ci costerà 219 miliardi».

Tajani, uomo di princìpi, non sente ragioni. Qualcosa ha ottenuto comunque: la Sugar Tax non entrerà in vigore il prossimo primo luglio ma in quello dell’anno successivo. Al grido di «Mai nuove tasse» gli azzurri l’hanno avuta vinta. Non si accontentano. Oggi, certo, voteranno la fiducia ma sull’emendamento retroattivo non transigono.

FdI, nel primo pomeriggio prova ad aggirare l’ostacolo. Ha il diritto di piazzare in commissione Finanze un senatore in più, Salvatore Salemi, e decide avvalersene. Peccato che ne informi la commissione invece che l’aula, come sarebbe doveroso. L’opposizione, regolamento alla mano, si scatena: «Roba da Orbán». FdI arretra, la commissione slitta in modo da anticipare l’aula con relativa comunicazione della new entry. Sembra tutto risolto invece a sorpresa si mette di mezzo proprio il detestato La Russa.

Il presidente del Senato riconosce al gruppo tricolore il diritto di aumentare la sua rappresentanza in Finanze. Però da oggi e non da ieri, cioè senza poter incidere sulla votazione a rischio. È una giornata pazza e lo si capisce quando l’opposizione esalta Ignazio il Nostalgico: «Bravo. Bravo. Ha fermato il blitz». Il mondo alla rovescia.

Non resta che implorare Fi perché almeno si astenga. Niente da fare. I princìpi sono princìpi. Il mercimonio con Patton salva la situazione in extremis e Fi ci ripensa. Ma il governo non può festeggiare: la divisione di ieri non è solo febbre da campagna elettorale. È la dimostrazione dal vivo di cosa vorrà dire governare senza un soldo in tasca e sotto la mannaia del rigore. È la profezia impietosa di cosa saranno i prossimi anni.

ANDREA COLOMBO

da il manifesto.it

foto: screenshot ed elaborazione propria