Contestare, contestare, contestare

Il tentativo subdolo, costante, ripetuto e praticato da quasi tutto il governo è quello di abituarci al fatto che chi critica l’esecutivo è dalla parte del torto, della illiberalità,...

Il tentativo subdolo, costante, ripetuto e praticato da quasi tutto il governo è quello di abituarci al fatto che chi critica l’esecutivo è dalla parte del torto, della illiberalità, dell’asocialità, del semplificazionismo dei contenuti, della banalità, di un ricorso ad una sorta di violenza verbale che sfocia poi in quella fisica quando i manganelli dei poliziotti si suicidano spezzandosi sulle schiene e le teste di coloro che protestano nelle piazze.

Il tentativo è subdolo ma evidente. O, almeno, dovrebbe esserlo. Perché a questo Paese sta succedendo qualcosa di molto singolare: mano a mano che il melonismo si espande e mette radici, l’acquiescenza dei corpi intermedi e degli uffici istituzionali, degli enti locali e delle propaggini governative nei territori diventa sempre più riscontrabile come elemento caratterizzante di un mutamento quasi socio-politico-antropologico dell’Italia delle destre estreme.

Ciò che si manifesta come riorganizzazione degli apparati è, in realtà, un adeguamento supino alla vertice del potere attuale, sentito non come espressione temporanea di una volontà popolare a cui spetterebbe la sovranità e, quindi, la decisione ultima su chi deve guidare il Paese ogni cinque anni; ciò che ci si presenta oggi innanzi è una condiscendenza che va al di là del dovere d’ufficio. Diviene empatia, condivisione, complicità, collaborazione (per non dire collaborazionismo).

Non è ovviamente soltanto da oggi che l’ingraziamento di chi detiene il potere si rende evidente e vellica le tante ambizioni che si fanno largo nei meandri dei tanti rivoli istituzionali, sociali, politici e culturali. Quando il vento sembra volgere in una direzione diversa, tante nuvole sono costrette a seguirlo, altre, che magari potrebbero sfuggire a questo controllo, si adeguano: per convenienza, per viltà, per rassegnazione e quieto vivere. Non c’è peggior tradimento se non l’abbandono della propria autonomia di scelta, di giudizio, di critica.

Chi critica, dunque, chi osa controbattere al governo è il malevolo e pregiudizievole anti-interlocutore che disdegna il dialogo e che attacca, prevarica, soverchia e si sovrappone alla voglia di democrazia dei postfascisti, dei leghisti di media-annata, dei liberal-liberisti che ancora carezzano l’idea dell’imprenditore come presidente eterno del loro movimento. Il blocco della maggioranza meloniana fa quadrato intorno alla ministra Roccella: gli studenti e le studentesse che l’hanno contestata agli “Stati generali della natalità” sono dei turpi e inverecondi censori.

Non c’è dubbio. Che cosa sta succedendo all’Italia inzuppata nel melonismo, nella mediocrità di un potere che, dall’alto del 28% dei consensi validi espressi per la compagine di governo tra tutti i voti validi, si erge a dominus incontrastato dell’intero Paese? Succede che non la cultura della destra, ma la sua provocante retorica seduce le anime belle di coloro che stanno a metà del guado e che attendono di avere più che di essere. Ed infatti, la classe media approfitta sempre degli aruspici commentatori che marcano la direzione della banderuola di turno.

L’opportunismo è, ma pensate che novità!, il protagonista di un politicismo italico che è croce e delizia di una modernità che si specchia nel rampantismo liberista del recente passato berlusconiano, così come nel tecnicismo di governi di unità nazionale che hanno preferito l’esaltazione dell’interclassismo come base costruttiva di una uscita dalla crisi pandemica che avesse per obiettivo le fasce più deboli del Paese con l’intendo di salvaguardare – si capisce! – l’economia e quindi decantare il “bene comune” quale bussola dell’azione di governo.

Il melonismo viene fuori come revanchismo semi-berlusconista, dichiaratamente presidenzialista e, quindi, con la precisa volontà di simbiotizzare il peggio del peggio tra pulsioni antisociali, privilegi dei potentati e dell’imprenditoria, tutela dell’alta finanza, assoluta obbedienza alla linea nordatlantista in politica estera, riformulazione del costituzionalismo secondo una linea che porti dal parlamentarismo al premierato e, quindi, un sempre minore spazio di critica per chi rivendica il diritto di alterità e non solo di alternanza. Per chi, in sostanza, si propone come alternativa.

Per questo studenti e studentesse che contestano la ministra Roccella sono paragonati ai censori. Nulla a che vedere con i magistrati romani che erano un po’ la guardia di finanza dell’antichità. Qui si parla di equiparazioni, di correlazioni tanto linguistiche quanto concettuali tra protesta e censura, tra diritto di critica, di dissenso, tra libertà di espressione e di stampa con una sorta di inaccettabile intolleranza nei confronti di chi governa. Disturbare il manovratore non si può.

La scelta della ministra Roccella di abbandonare volontariamente il consesso a cui era stata invitata non è la conseguenza delle urla degli studenti. E’ una abile interpretazione di un vittimismo che crea il caso, che induce inevitabilmente a ritenere lei la vittima di una contestazione che, fino a prova contraria, in una democrazia è più che legittima. La censura è un atto sempre del potere, di chi governa. Mai di chi è governato. Quei ragazzi del collettivo “Aracne” hanno poi lasciato la sala volontariamente e, naturalmente, sono stati identificati dalle forze dell’ordine.

Giusto per sapere con chi ha a che fare il potere. Per monitorarli, per schedarli magari. Per seguirli nelle manifestazioni e, chissà, un giorno prevenire il diritto al dissenso con qualche fermo, con qualche arresto. La storia d’Italia è piena di episodi repressivi e di trame più o meno oscure che si sono rette sull’utilizzo della forza per tacitare consensi e dissensi. Ma qui, oggi, nel 2024, c’è un salto di qualità negativo che va registrato e tenuto bene a mente.

Facciamo due più due: il premierato da un lato, la discesa verticale dell’Italia nella classifica sulla libertà di stampa redatta da Reporters senza frontiere; e poi ancora, le manganellate agli studenti che protestano per la guerra di Gaza; le occupazioni universitarie trattate come se fossero atti delinquenziali. Da ultimo le contestazioni ai membri del governo, così come a singoli deputati e senatori, valutate alla stregua di censure illiberali e antidemocratiche.

È la somma che fa il totale, diceva Totò. Ed appunto ne viene fuori un quadro piuttosto disagevole per chi volesse affermare che siamo liberi di esprimermi e di dire ciò che pensiamo. Questo governo, la ministra Roccella in testa, ha portato avanti un attacco alla Legge 194, così come a tutti i diritti fondamentali per la piena espressione della persona, del cittadino e dell’essere umano, da quando si è insediato quasi due anni fa. La pretesa che ci si possa solo semplicemente esprimere senza protestare è surreale.

Perché il dissenso dovrebbe limitarsi al civilissimo e virtuosissimo rapporto di dialettica antitesi? Perché non può esprimersi nelle manifestazioni con strepiti, urla, fischi, anche anatemi all’indirizzo di chi ci governa? Ciò che importa è che non trascenda nella violenza, nel corpo a corpo, nell’offesa gratuita tanto psicologica quanto materiale. Ma non è davvero possibile restringere il perimetro del diritto alla contrarietà delle azioni di un esecutivo al solo ambito del contraddittorio.

Abbiamo tutte e tutti il costituzionale diritto ad organizzare il dissenso, a farne una pacifica arma di contrasto rispetto a quella che reputiamo essere una violenza della maggioranza espressa in azioni di governo che incidono praticamente nella nostra esistenza: se si intende far sentire alla futura madre il battito del cuore del piccolo feto che porta in grembo, inducendole così un senso di colpa per la volontà espressa di abortire, non si fa una violenza? Si è più cristiani per questo o più integralisti cattolici?

Se si descrivono gli studenti, come qualche deputati fratellitaliota ha fatto, come dei fancazzisti che dovrebbero andare a lavorare piuttosto che protestare, si tenta di rieditare il vecchio adagio berlusconiano sui lavoratori che scioperavano ma, questa volta, molto più maldestramente. Quando dalle posizioni di potere si inizia a deridere delle categorie, non si critica chi la pensa diversamente dalla maggioranza che ci governa, ma si discrimina per creare discriminazione, si intimidisce per dare seguito ad una più diffusa discriminazione.

Si spingono i propri elettori in questa direzione e si agitano gli spettri della contestazione aprioristica come una sorta di moda comunistica, di atteggiamento di un nullafacentismo a cui si ricorre come sillogismo ricorrente per tutte e tutti coloro che trovano il tempo di occuparsi di politica da un punto di vista opposto a quello di Giorgia Meloni e ministri al seguito. Proprio i membri del governo devono saper incassare le critiche e mettere in conto che chi ha l’onore di dirigere il Paese ha l’onere di di essere dal Paese stesso contestato.

Non è davvero immaginabile che il diritto della libertà di parola e di espressione sia “tollerabile“. La tolleranza è quasi sempre un concetto negativo addobbato con imbellettamenti che lo facciano sembrare positivo, perché esprime una sopportazione e una reciproca comprensione delle differenze. Non è inclusiva ma gerarchica: chi tollera sta in alto, chi è tollerato sta in basso. Quindi, nel momento in cui il potere esecutivo si profonde nella “tolleranza” del dissenso, non agisce nell’interesse comune ma difende soltanto i suoi privilegi.

Il principio dovrebbe essere questo: nessuno deve per forza cambiare idea ad un altro; ma ognuno ha il diritto di rendere manifesta la propria coscienza, i propri pensieri e le proprie critiche ovunque, singolarmente o in associazione. Sandro Pertini difendeva il diritto al “libero fischio” in una altrettanto “libera piazza“. Schierandosi dalla parte dei giovani che contestavano tanto i democristiani che si presentavano alle manifestazioni per la Liberazione quanto i membri del suo partito, il PSI.

Se la protesta fosse stata silenziosa, avrebbe ovviamente avuto una diversa diffusione mediatica, somigliando più ad un atto simbolico. Invece gli studenti e le studentesse che hanno contestato la ministra Roccella hanno scelto la modalità rumorosa, perché la protesi della voce è essenziale se si vuole arrivare direttamente al soggetto-oggetto della protesta stessa. I corpi non sono soltanto involucri che contengono il soffio della psiche, di quell’anima in cui credono i cattolici, ma sono parte della nostra essenza. Un tutt’uno con noi, una inscidibilità tra pensiero e azione.

Per questo il dissenso è anche pensiero, è anche scrittura, è anche dialogo, ma può e deve tradursi in atti pratici, in qualcosa di strutturale, di tangibile al di là dell’unilateralismo della parola vergata o espressa. Alzare la voce è proprio questo: provare a farsi sentire da chi ha sempre voce in capitolo. Perché siede al tavolo circolare del governo, perché ha spazio in ogni momento su televisioni, Internet, radio e manifesti pubblicitari, attraverso risorse che le cosiddette spregiativamente “minoranze” rumorose non hanno.

Nella Storia sono sempre queste a rovesciare le precedenti maggioranze. Ed il fatto che questo sia divenuto un diritto costituzionalmente riconosciuto, alla base di ogni ordinamento presuntamente democratico, fa sì che i fischi e le urla siano inclusi nel pacchetto di sopportazione che un decisore politico deve portarsi appresso. Se dimentica di essere al servizio del Paese, se il suo intento era governare per una parte e non per il tutto, allora quei fischi non sono soltanto giusti ma sono più che dovuti.

Il vittimismo ministeriale fa presa sulle belle anime pronte a difendere i diritti di chi appare pubblicamente virtuoso, perbene, non arrabbiato, ma sardonicamente conciliante con il sorrisino ironico ispirato dalla posizione di governo che si ricopre, quindi da una consapevole superiorità istituzionale rispetto alla bassezza popolare. Ma le lotte per la difesa dei veri diritti sociali, civili ed umani non si possono fare con le belle maniere.

A volte tocca anche strillare, agitarsi e dimostrare che il confronto non è sempre risolutivo. Soprattutto se, come nel caso del governo Meloni, non c’è possibilità di dialogo su quasi tutte le politiche che porta avanti e che vanno nella direzione di una democratica orbaniana, di una diversa concezione delle libertà: a tutto vantaggio della maggioranza. All’arroganza del governo e del potere non si può sempre rispondere con il bon ton del galateo istituzionale o con l’educazione borghese del buon tempo antico…

Sic et simpliciter, presidenti, ministri, deputati e senatori se ne facciano una ragione: il diritto al dissenso è anche e soprattutto contestazione. E non la si fa seduti, facendo smorfie o mandando occhiatacce all’intelocutore. A volte ci si alza e si sbraita, perché si accumula una indignazione insopportabile. Perché non si vuole subire. Perché non si deve subire.

MARCO SFERINI

10 maggio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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