Ritorsioni reciproche nel vortice di guerra israeliano

La ritorsione israeliana contro l’Iran, che ha preso di mira fondamentalmente una base dell’aviazione nei pressi della città di Esfahan, rischiando comunque di colpire un vicino sito nucleare, è...

La ritorsione israeliana contro l’Iran, che ha preso di mira fondamentalmente una base dell’aviazione nei pressi della città di Esfahan, rischiando comunque di colpire un vicino sito nucleare, è l’avvertimento di Tel Aviv agli ayatollah: possono arrivaare a colpire la Repubblica islamica dallo Stato ebraico, senza aiuti terzi. Adesso le due potenze si sono annusate, si sono schermagliate e ci si augura che finisca qui, che non prenda il via la temuta escalation che potrebbe infiammare l’intero Medio Oriente (come se non lo fosse già abbastanza).

Netanyahu ha ottenuto un risultato: ha distratto l’opinione pubblica internazionale, almeno per qualche ora, dalla drammatica situazione di Gaza e Rafah. Se gli Stati Uniti negano di aver mai mercanteggiato un compromesso tra attacco all’Iran e invasione a tutto spiano dell’ultima porzione della Striscia per nulla libera e dove si ammassano milioni di civili palestinesi, è altresì vero che l’amministrazione di Washington ha trattato col governo israeliano, riscuotendo un sonoro insucesso.

Perché, alla fine, come avevano preannunciato sia Gallant sia Netanyahu, l’attacco all’Iran c’è stato. E così ad alcuni siti in Siria dove sono state colpite – pare – delle postazioni radar. Ancora una volta la guerra guerreggiata sconvolge ogni dettame del diritto internazionale: non è infatti normale che uno Stato (Israele) attacchi una rappresentanza diplomatica di un altro Stato (l’Iran) che si trova in un paese terzo (la Siria). Basterebbe questa intersezione di assurdità per evidenziare tutta l’impotenza della comunità internazionale nel frenare quella che può diventare una guerra mediorientale su vasta scala.

Quando gli studenti italiani, picchiati, manganellati e arrestati, manifestano contro la guerra a Gaza, altro non fanno se non pretendere dal proprio governo una decisa presa di posizione contro l’invio di ulteriori armamenti ai competitor in causa, contro l’occupazione di territori nazionali da decine e decine di anni, contro una disumanizzazione dell’esistenza che, per quanto concerne il conflitto israelo-palestinese, è assimilabile all’apartheid, alla segregazione davvero razziale, visto che cisgiordani e gazawiti sono trattati come persone senza alcun diritto.

Tanto meno alcun diritto internazionale. All’ONU è arrivata, su pressione della Lega araba, la discussione sul riconoscimento pieno dello status di appartenente alle Nazioni Unite (e non più soltanto di “osservatore“) per la Palestina. Immediatamente è scattato il veto da parte di Washington e Londra che, in quanto membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, possono quindi bloccare l’iter di prosecuzione della discussione stessa. Il parere dell’amministrazione americana riguarda le tempistiche di un ordine del giorno per accogliere lo Stato di Palestina nel consesso internazionale.

Secondo l’ambasciatrice di Biden non ve ne sarebbero di peggiori come in questo momento. Ufficialmente gli USA temono ritorsioni israeliane sui palestinesi. In realtà non possono più di tanto scostarsi dall’ira funesta del loro alleato mediorientale di primordine, avendone già contestato l'”eccessiva” reazione su Gaza. Disidicevolmente encomiabile la sottile galanteria eufemistica del linguaggio diplomatico che, invece, per il Segretario generale António Guterres non vale, essendo ormai riconosciuto da Israele come un nemico giurato.

L’alto rappresentante dell’ONU, senza mezzi termini, ha utilizzato questi termini per descrivere la situazione nella Striscia: praticamente un «paesaggio umanitario infernale». Se prendiamo un carta geografica del Medio Oriente e fissiamo lo sguardo su Israele, raffrontando i fatti che accadono in queste ore, ci possiamo rendere conto che se Siria, Libano ed Iran sono coinvolti nel conflitto di Gaza è per due motivi: l’uno è la vicinanza etno-religioso-culture della comune origine araba con i palestinesi; l’altro è la strategia israeliana di giganteggiare nella regione.

Su Limes, Lucio Caracciolo ha brillantemente esposto un assunto che dovrebbe essere l’incipit di ogni analisi attuale sulla questione più complessa e complessiva mediorientale: il fatto che Israele è l’unico Stato al mondo “fondato su un emergenza permamente“. Ma si può vivere così? Può una democrazia dirsi tale nel momento in cui, invece di coltivare relazioni quanto meno distese con gli altri vicini, se non proprio del tutto amichevoli e complici, alimenta focolai di tensione storici e ne inventa nuovi per esacerbare ancora di più le reazioni scomposte ma ovviamente conseguenti?

Sempre Lucio Caracciolo, opportunamente, cita Moshe Dayan, il generale laburista che fu un intransigente avversario dei palestinesi e degli arabi durante la Guerra dei Sei Giorni a più miti consigli in quella del Kippur: «Dobbiamo essere percepiti dal nemico come un cane pazzo, troppo pericoloso per essere disturbato». Contestualizzata e anche decontestualizzata, la frase è la quintessenza dell’irrazionalismo imperialista tanto di una politica quanto di un militarismo che si fondono in una concezione davvero imperialista e suprematista di Israele nei confronti dei suoi vicini.

Terza e ultima citazione dagli ottimi interventi di Caracciolo: «Solo Israele può distruggere Israele». Il modo in cui il gabinetto di guerra sta intendendo il conflitto multilaterale va in questa direzione. Non tanto nell’immaginare la fine dello Stato ebraico che nessuno vuole vedere. Quanto nel pensare ad un paese finalmente riconoscibile come democrazia dai tratti occidentali – le famose virtù liberaldemocratiche alla Fukuyama – che realizza sé stesso invece di scendere al livello di quelle autocrazie e teocrazie che sono giustamente biasimate per il mancato rispetto dei diritti umani.

La spirale di ritorsioni, innescata per quanto riguarda la Repubblica islamica, dall’attacco israeliano alle rappresentanze diplomatiche della stessa a Damasco, non può che condurre verso quell’aumento della tensione che è, peraltro, molto vicina ad una serie di conflitti che vanno dal sud della penisola arabica (lo Yemen docet) al rinfocolamento degli estremismi jihadisti in Africa, nonché all’apertura di nuovi canali di tensione verso l’Estremo Oriente. La Cina si tiene giustamente in secondo piano, mentre consolida un andamento penetrativo sul terreno economico e finanziario anche nei confronti della Repubblica stellata.

L’andamento dei mercati e delle borse chiarisce ancora di più l’allarme internazionale che una guerra regionale in Medio Oriente diventi un principio unificante per i conflitti sparsi sul pianeta, compreso ovviamente quello sul fronte russo-ucraino. Il prezzo del petrolio sale, visto che è logico presupporre complicanze nello stretto di Hormuz, là dove passano navi militari americane, dove transitano le navi che trasportano l’orio nero in gran parte del mondo. Tutto ciò corrisponde, evidentemente, ad una esigenza di Teheran di avere il controllo di quel golfo che, del resto, si chiama “persico“.

Richiarmarsi oggi alla pace, alla trattativa, alla diplomazia può apparrire, in mezzo al ginepraio di logiche pragmatiche richiamate dalla ferrea esigenza di un militarismo che destruttura l’essenza della politica stessa, un esercizio quasi infantilmente retorico, puerilmente idealista, dai tratti romanticheggianti. Degno, quindi, soltanto per quegli utopisti che, di volta in volta, vengono tirati in ballo come lavacro delle proprie coscienze, definendoli dei candidi illusi che non si rendono conto dei rapporti di forza esistenti e di ciò che c’è in gioco in questo terribile risiko mondiale.

Ma è tutto il contrario: i veri utopisti (ammesso che l’utopia sia poi qualcosa di così gravamente infamante da vivere e da viversi) sono quelli che vogliono farci credere che sia impossibile una alternativa di società in cui le guerre vengano messe al bando perché finalmente i popoli si rendono conto di essere usati e strumentalizzati per fini privati, per interessi enormi che non sono imbattibili, nonostante ci facciano sentire piccoli, tapini e perfino meschini nel ritenerlo. Governi e poteri economici, militarismi e poteri finanziari fanno leva sulle sensazioni e le percezioni per nascondere le loro debolezze.

Che cosa sono queste guerre se non la dimostrazione evidente del capitalismo e del liberismo di superare la contraddizione tra espansione della ricchezza e distribuzione della stessa all’intera popolazione mondiale? Che cosa sono i conflitti che si aprono in queste ore, che si riaprono da mesi e che si combattono da decenni se non il dichiarato fallimento di un sistema economico e antisociale che non può garantire nessun equilibrio stabile tra capitale e lavoro, tra sfruttatori e sfruttati e che, pertanto, non ha altro modo per riallinearsi sul terreno della concorrenza multilaterale e multipolare se non innescando nuove fiammate di orrore?

Non è la pace a non essere sostenibile. E’ la guerra. Chi si richiama realisticamente ad un pragmatismo razionale dovrebbe riflettere sul fatto che i rapporti di forza si possono cambiare e che, se non si vuole andare in questa direzione, ci si inventa qualunque tipo di compatibilitùà tra politica ed economia, per essere accettati nell’odeon del cinismo diffuso di un controllo della struttura sulla sovrastruttura, di un dominio di classe che va spezzato.

In questi mesi sono morti quasi quarantamila civili palestinesi a Gaza. Più della metà sono bambini e ragazzi, adolescenti. I feriti sono circa settantamila. I profughi si stimano in due milioni di persone. La fame e la sete sono parte di quel paesaggio infernale richiamato da António Guterres, là dove si usa l’arma silenziosa della privazione delle risorse e del fabbisogno alimentare di base per costringere una comunità ad un esilio forzato.

C’è soltanto un nome per tutto questo dolore, per questa inenarrabile sofferenza: crimine. Crimine di guerra, crimine contro l’umanità. E’ probabile che la parola “genocidio” sia ancora impropria per essere effettivamente usata. Perché quello che sta sopravvivendo a Gaza è la metà della disperazione che non ci faranno vedere, o che tenteranno di minimizzare domani. Quando i morti toccheranno la cifra dei quarantamila, quando un piccolo mondo antico mediorientale viene sepolto sotto le macerie e i cumuli di cadaveri.

La parola genocidio, se non si ferma la guerra, se non si rovescia il governo di Netanyahu, spetterà di diritto ad una veridicità dei fatti che i duri numeri degli uccisi e dei feriti comproveranno davanti alla Storia di Israele: una macchia, l’ennesima, in un cammino settantennale in cui, come ha detto e scritto Lucio Caracciolo, quella che è appellata come una democrazia ha vissuto costantemente in allarme, in allerta. Per le circostanze, quindi per ciò che le era limitrofo e la minacciava. Ma soprattutto per le scelte scriteriate della destra sionista.

Contro questa destra, contro tutte le destre, il richiamo alla pace e ad una cultura internazionalista di convivenza fra i popoli è un imperativo categorico da cui non ci possiamo e non ci vogliamo esimere.

MARCO SFERINI

20 aprile 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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