«Piano Mattei», la Libia come pompa di benzina

Non una parola sul fatto che, a più di 11 anni dalla uccisione di Gheddafi, la Libia non abbia mai firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati per l’ingresso legale delle agenzie Onu

Gas contro profughi: la sintesi è quasi brutale ma è la sostanza del viaggio della premier Meloni a Tripoli di Libia. L’Italia con l’Eni investirà 8 miliardi di euro nel gas offshore libico da immettere nella pipeline Greenstream tra Mellitàh e Gela (attiva, a singhiozzo, dal 2004) e in cambio i libici si impegnano, assai vagamente, a tenere sotto controllo i flussi dei migranti che gli scafisti rinchiudono in luoghi disperati e miserrimi che sappiamo corrispondono a carceri e a campi di concentramento.

Se tutto questo «aiuta gli africani a crescere», come ha dichiarato Meloni, andiamo proprio bene. In realtà consideriamo la Libia come una pompa di benzina. Anche perché la premier ha fatto uno scivolone affermando di voler «potenziare» la guardia costiera libica – nel solco coloniale già tracciato dal ministro «democratico»Minniti.

Autorevoli organismi dei diritti umani delle Nazioni Unite ed europei (con Human Right Watch e Amnesty International) hanno infatti più volte confermato quello che è visibile a tutti: in Libia vengono commessi crimini contro l’umanità e l’appoggio alla cosiddetta guardia costiera è in realtà un sostegno alle milizie tribali responsabili del traffico di essere umani, di violenze e stupri, oltre che colpevoli di alimentare il conflitto interno, allontanare la riconciliazione e ogni prospettiva per un processo elettorale credibile (le elezioni previste nel 2021 sono state rinviate sine die).

La Libia rimane l’impietosa cartina di tornasole dei nostri errori. Come del resto già accadeva al tempo degli accordi stretti da Gheddafi con l’Italia nell’agosto del 2010, sei mesi prima di bombardarlo insieme a Usa, Gran Bretagna, Francia e Nato: il raìs fu ricevuto a Roma in pompa magna, con sfilate di cavalli e cammelli a Tor di Quinto e le mani tese di politici e imprenditori sul piatto d’argento del dittatore che prometteva 55 miliardi di euro di affari (non gli 8 miliardi gas di oggi). Come si vede le nostre quotazioni, ma anche quelle della sponda Sud, a distanza di qualche anno sono alquanto scese.

Del resto nel 2011 non abbiamo avuto neppure il coraggio di dichiarare una doverosa neutralità nel conflitto libico come fece invece la Germania. Insomma quello che lo storico socialista Gaetano Salvemini definiva nel 1911, con una dose di sano ma non apprezzato anti-colonialismo, uno «scatolone di sabbia», poi tragico teatro negli anni Trenta di un massacro di 80mila libici (su una popolazione allora di 800mila persone) attuato dal fascismo e dal generale Graziani, in realtà è la triste matrioska dei nostri errori, che escono in sequenza uno dopo l’altro, passando da un secolo all’altro, da un governo all’altro.

Il viaggio in Libia della premier segue quello appena compiuto in Algeria, alleato storico di Mosca, in un tour del Nordafrica dove l’Italia si gioca gli ultimi spiccioli di una credibilità basata in questi decenni più sulla costante presenza dell’Eni (che fornisce alla Libia l’80% dell’elettricità) che sulla politica balbettante dei nostri governi, per altro regolarmente sabotati, sotto lo sguardo degli Usa, dai nostri alleati di Parigi e Londra. «Bisogna evitare il rischio che alcune influenze lavorino per destabilizzare il quadro piuttosto che favorirlo», ha sottolineato Meloni, il cui scopo principale è «fermare i profughi» e scansare, forse senza riuscirci, nuove trappole, libiche ed europea.

Il premier libico Abdelhamid Dbeibah ieri gonfiava il petto alla sfilata del picchetto militare ma è un personaggio vulnerabile come del resto il suo predecessore Sarraj – unico governo riconosciuto dalla comunità internazionale – che nel novembre 2019 chiedeva all’Italia un aiuto per respingere il generale libico Haftar: al nostro posto intervenne con i droni Erdogan, il Sultano della Nato, che per sbeffeggiarci imbarcò i suoi militari sulle motovedette da noi regalate ai libici.

Dall’altra parte, in Cirenaica, con Haftar sono schierati i mercenari russi della Wagner, i britannici,gli Emirati, i francesi, che fanno una politica ambigua, e l’Egitto del generale-presidente Al Sisi.

Anche il generale egiziano con il suo gas rientra nel progetto del “Piano Mattei” della premier Meloni di fare dell’Italia un hub dell’energia: basta che accettiamo le sue miserabili bugie – alle quali finge di credere soltanto il ministro degli esteri Tajani – di volere «collaborare» sulla verità per Giulio Regeni. Le carte della procura di Roma sui poliziotti e gli agenti dei servizi che hanno torturato e ucciso Giulio sono chiare ma le notifiche del procedimento non sono mai state recapitate agli imputati dal Cairo. E forse mai accadrà.

Non una parola è stata spesa a Tripoli sul fatto che a più di 11 anni dall’uccisione di Gheddafi la Libia non abbia mai firmato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, l’unico strumento legale che consentirebbe l’ingresso delle agenzie dell’Onu per fornire ai migranti un’assistenza più umana.

Oggi chiunque entri senza un visto in Libia è considerato un clandestino, privo di qualunque protezione umanitaria e politica. La Libia di fatto è fuori dalla comunità internazionale ma di questo non si fa cenno qui e neppure in sede europea. Non basta, un rapida abbronzatura di qualche ora a Tripoli o ad Algeri per avere una politica mediterranea.

ALBERTO NEGRI

da il manifesto.it

Foto di Engin Akyurt

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Economia e società

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