Vendetta dello Stato o giustizia repubblicana?

Dobbiamo scegliere. Vogliamo lo Stato carduccianamente “vindice” (ma non della ragione) oppure la Repubblica della giustizia, quanto meno tentata, messa in pratica al meglio possibile secondo i dettami costituzionali?...
Alfredo Cospito

Dobbiamo scegliere. Vogliamo lo Stato carduccianamente “vindice” (ma non della ragione) oppure la Repubblica della giustizia, quanto meno tentata, messa in pratica al meglio possibile secondo i dettami costituzionali?

La prima via è quella più sbrigativa, semplicissima e semplicistica: una sorta di piccola banalità del male. Si prende il reo, lo si sbatte nelle patrie galere e lo si lascia marcire lì dentro, garantendogli giusto quel minimo di assistenza per impedire quelle manifestazioni di rimostranze di associazioni umanitarie, le raccolte di firme, i presìdi, le proteste, le fiaccolate o più sostenuti cortei.

La seconda via è quella del riavvicinamento dell’umanesimo costituzionale, del principio di cittadinanza universale che dobbiamo a tutti. Anche ai peggiori criminali. Per cui, secondo la funzione che abbiamo dato al diritto italiano, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, con l’edificazione della Repubblica, è di creare una qualche forma di giustizia in questo Paese e abbandonare la repressione vendicativa e, al contempo, la vendetta repressiva.

E’ ovvio che, se si guarda con attenzione a questi primi settantasei anni di regime democratico e repubblicano, si inciampa in grandi devianze, in enormi scostamenti dalla linea costituzionale: il carcere è rimasto a lungo tempo un luogo di interdizione dei e dai diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino.

La funzione rieducatrice della pena e quella reinseritrice del reo nella società dopo la fine della stessa, sono state marginalizzate, relegate in un formalismo di intenti che stava quindi più sulla carta che nella realtà.

Le grandi lotte radicali contro il carcere inteso come mera espressione di un diritto esclusivamente punitivo, hanno sortito l’effetto di sensibilizzare la pubblica opinione sulla durezza delle sbarre e del dietro alle sbarre stesse. Tutta una nuova contro-etica della pena si è fatta vanti nel corso degli anni e ha assunto sostanzialmente la forza di imporsi grazie all’avanzare di tanti altri diritti: sociali e civili, quindi, nell’insieme, anche umani.

Dalla “forza dello Stato” si è passati allo “Stato di diritto“, non senza attraversare lunghi dibattiti sulla determinazione, sulla risolutezza ed anche sulla cedevolezza delle istituzioni nei confronti di chi commette reati gravi e, di primo acchito, verrebbe voglia di relegare nella più buia delle segrete con un miserevole pasto a pane ed acqua.

Ma per l’appunto qui sta il nocciolo della questione che riguarda anche Alfredo Cospito. Dobbiamo saper distinguere, come ammoniva papa Roncalli l’errore dall’errante e riconoscere il peso che ha avuto il primo nella vita del secondo e non assecondare sempre e soltanto il principio secondo cui “dura lex, sed lex“. L’ineluttabilità della pena è un dogma irricevibile: le leggi si possono adeguare alle circostanze e calibrare i loro effetti secondo le diversità che ognuno di noi introita, vive ed esprime.

Cospito ha commesso dei reati gravissimi: ha sparato alle gambe di un dirigente aziendale (ed è stato condannato a dieci anni di carcere, interamente scontati) e ha piazzato due bombe a basso potenziale esplosivo vicino alla caserma dei Carabinieri di Fossano. Per quest’ultima imbecillissima azione, l’anarchico è stato ritenuto responsabile del reato di strage contro lo Stato: la pena è l’ergastolo. Ostativo. Al 41 bis. Il che significa la reclusione che si assegna ai mafiosi come Messina Denaro.

La sproporzione tra reato e pena è evidente. L’allora ministra Cartabia, che assegnò a Cospito il regime carcerario duro, giustificò la decisione asserendo che in questo modo sarebbe stata interrotta la via di comunicazione tra il detenuto e l’esterno, riducendo così le possibilità di riorganizzazioni dirette o indirette della rete della cosiddetta “Federazione Anarchica Informale“.

Più o meno questi sono i fatti. La lotta di Cospito non è la mia lotta: l’anarchismo è seducente fino a che non sfocia in questi infantilismi beceri, meramente dimostrativi, assolutamente privi di senso politico e di obiettivo soprattutto. La violenza isolata, diretta contro singoli obiettivi è uno scimmiottamento del terrorismo organizzato delle BR, sulla cui storia molto vi sarebbe ancora da dire, scrivere e discutere: perché la loro emersione come movimento pseudo-rivoluzionario fu soprattutto dovuta alla crisi di una sinistra di classe negli anni ’70 del secolo scorso.

Ma, venendo all’oggi, il “caso Cospito” è emblematico per la protesta del detenuto e per le ragioni che, in particolare la muovono: l’anarchico informale non pretende di essere scarcerato, ma di essere ospite dello Stato italiano in un regime carcerario, diciamo così…, “normale“, escludendo quindi l’aberrazione del 41 bis. Perché di aberrazione si tratta. Sempre e comunque.

Così come aberrante è la pena stessa dell’ergastolo, ostativo o meno che sia. Se la funzione della pena è di essere un viatico al reinserimento sociale, è evidente che mediante il “fine pena mai” non si arriverà a questo scopo. E’ altrettanto evidente che mafiosi come Messina Denaro, stragisti e criminali che hanno compiuto atti di inaudita, efferata gravità, è difficile poter pensare di rieducarli e di rimetterli nel circolo sociale della collettività. Sarebbe, qui sì, fare un torto morale alle vittime ed alla giustizia stessa.

Il confine è quindi tra vendetta/repressione e giustizia/determinazione. E, comunque, mai e poi mai lo Stato di diritto deve agire in spregio alle garanzie che deve a chiunque si trovi in suo potere.

La Repubblica non deve uccidere, ma preservare, nonostante possa sembrare ingiusto dare a chi non ha dato, permettere a chi non ha permesso, comprendere chi non ha compreso, trattare umanamente chi è stato disumano. Qui la grande differenza della cultura illuminista, modernamente umanista e libertaria deve poter prevalere sull’oscurantismo reazionario e conservatore della repressione come metodo di dimostrazione della forza dello Stato.

Cospito, le cui azioni sono tutto tranne che politica in favore degli sfruttati, ma recano nocumento all’emblematicità dell’anarchismo, che può essere condivisibile o meno come orizzonte ideale, ma che comunque fa parte della cultura proprio politica anche della nostra Italia, deve poter scontare gli anni (eccessivi) di pena che gli sono stati comminati al pari degli altri detenuti, senza l’aggravante di un isolazionismo permanente che non andrebbe considerato mai.

Perché lo Stato può vendicarsi, se vuole, come espressione concreta della crudezza spietata del potere; ma la Repubblica ha il dovere di essere giusta e forte, non forte e repressiva. Secondo la Costituzione, secondo l’articolo tre, secondo tutti quei fondamentali su cui si è provato ad edificare la democrazia dal 1946 ad oggi.

La dura determinazione della giustizia non può trovarsi solamente in una coniugazione dell’espressione pratica di un mero potere, ma deve evolvere in una sempre maggiore lontananza dal potere stesso e diventare un tutt’uno con un esercizio popolare della coscienza che sia le “Legge” con la elle maiuscola. Ovviamente in una società futura e non in questa, dove – purtroppo – le carceri sono una “naturale” conseguenza del suo squilibrio permanente perché immanente.

Il regime carcerario del 41 bis e l’ergastolo ostativo possono essere oggetto di un dibattito largo, molto articolato, per trovare una soluzione all’evitamento di una torsione autoritaria e vendicativa del diritto italiano. Non sarà facile con un governo di estrema destra riuscire a mettere un nuovo mattoncino di evoluzione democratica in questo Paese, ma è necessario provarci. Perché il governo non è tutto e non rappresenta tutti e, quindi, sono principalmente le minoranze (o presunte tali) che hanno anzitutto il dovere di vigilare sul mantenimento del regime repubblicano. Intatto nella sua aderenza alla Costituzione.

Così come abbiamo riconosciuto alla pena di morte tutta l’indegnità dell’orrore che si portava appresso, l’umiliazione che conferiva allo Stato-boia, al carnefice che mortificava la giustizia, altrettanto dobbiamo oggi fare mettendo in discussione i retaggi di una legislazione esclusivamente punitiva e disumana.

Quando rileggo la storia del povero bambino strangolato dagli scagnozzi di Messina Denaro, delle modalità con cui tutto questo è stato fatto e delle atrocità commesse dal boss di cosa nostra (non merita nemmeno la maiuscola questa associazione criminale), certo che ho un sussulto. Ma sarebbe orribile vivere in uno Stato, in una Repubblica che, anche solo per un attimo, divenisse esattamente quello che i mafiosi sono: degli spietati assassini.

Proprio perché lo Stato è e deve essere eticamente superiore all’arretratezza e alla barbarie dell’inciviltà mafiosa o della criminalità diffusa, a maggior ragione non può in nessun modo uccidere o portare alla morte in tempi dilatati, lunghi, lasciando chiunque in cella per sempre.

E’ molto difficile adeguare il diritto alle emozioni. Non si può nemmeno pensare di legiferare senza tenere conto di quello che proviamo, altrimenti creeremmo delle leggi ancora più mostruose. Una via di mezzo è possibile, è rintracciabile da qualche parte. Questo è il compito di una comunità civile e democratica: discutere e deliberare. Non inveire a condannare soltanto.

MARCO SFERINI

31 gennaio 2023

foto: screenshot

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