La Russa e Fontana, manifesto nero del programma di governo

L’attrito stridente tra i valori repubblicani e costituzionali, di una Italia democratica, laica, in cui a fondamento dello sviluppo sia civile sia sociale sta la reciproca mutualità e la...

L’attrito stridente tra i valori repubblicani e costituzionali, di una Italia democratica, laica, in cui a fondamento dello sviluppo sia civile sia sociale sta la reciproca mutualità e la solidarietà attiva, e quella rappresentata dai due nuovi presidenti delle Camere, è, nella sua manifesta evidenza, la prima pietra angolare di una politica della maggioranza parlamentare che, a breve, sarà il basamento su cui poggerà il governo di Giorgia Meloni.

La Russa e Fontana proprio questo, al momento, rappresentano: il primo passo di un conservatorismo postfascista da un lato e di uno reazionario dall’altro. La multidimensionalità della destra estrema e illiberale di questo nostro Paese ha iniziato a mostrarsi in tutta la sua evidenza, anche in tutte le sue contraddizioni interne, proprio con l’elezione dei due regolatori dell’attività delle alte aule legislative della Repubblica.

Non va mai dimenticato che, proprio perché parliamo del Parlamento, non ci riferiamo solamente ad una assunzione di ruoli puramente formali, di natura tecnico-amministrativa, ma ad una espressione concreta di una serie di funzioni che sono vitali per la garanzia dei diritti tanto degli eletti quanto degli elettori.

Troppe volte si è accettata, con una generale propensione ad una rassegnazione passivizzante, l’idea che le Camere fossero un luogo di ratifica delle decisioni governative: è stata questa la narrazione imposta da un costante tentativo di stravolgimento del parlamentarismo repubblicano a tutto vantaggio di una sempre meno ventilata e sempre più praticata teorizzazione di un presidenzialismo italico che prendesse spunto un po’ dal modello statunitense e un po’ da quello francese.

L’imitazione di altre esperienze di forme e amministrazioni statali è stata, lungo più legislature, la cifra di una insufficienza tutta nostra, proprio come Paese, nel non riuscire ad esprimere una cultura istituzionale autonoma dopo la grande fondazione della Repubblica con la sua Carta fondamentale nel 1948.

Da allora in avanti, quasi ogni riforma elettorale e certamente ogni controriforma costituzionale portata davanti tanto al Parlamento quanto al popolo italiano, non ha mai avuto i contorni di una aderenza alla situazione contingente dello Stivale, ma si è ispirata ad una esterofilia che veniva in supporto alla lacuna di cui sopra.

Parallelamente, mentre la cultura politica veniva sempre più influenzata dai modelli d’oltreoceano e da quelli degli Stati europei che, di volta in volta, parevano simpatici per vicinanza politica alla maggioranza di turno al governo, si immiseriva anche una cultura istituzionale e prendeva campo una lontananza tra il percepito e il reale, tra le istituzioni e la gente.

Il risultato è stato quello di giungere nei pressi di una pericolosa abitudinarietà al fatto che siano delle minoranze di elettori a decidere le sorti intere dell’Italia e nel pieno delle crisi economiche. Le leggi elettorali sono state fatte nell’interesse di una parte e non dell’intero corpo elettorale che è, potenzialmente, il principio della determinazione della politica nazionale.

Di conseguenza, la macchina istituzionale è stata alterata nel profondo della sua essenza e il voto stesso è diventato una variabile dipendente dai rapporti interni ai partiti e non dalla relazione con i territori e i cittadini.

Con la grande crisi delle bolle speculative e finanziarie del 2007-2008, i sommovimenti dei mercati e delle borse hanno determinato ulteriori squilibri continentali che si sono riversati su una Italia segnata dalle ferite aperte di una disfunzione antisociale marcata dalla precarietà, dal sempre maggiore restringimento del potere del lavoro a tutto vantaggio di quello delle imprese.

La destra italiana, così, è riuscita a cavalcare l’onda del populismo e dell’orgoglio nazionale, per prevenire l'”invasione” e la “grande sostituzione etnica” che è, tra le altre tragiche amenità dei nostri tempi, uno degli strumenti più adoperati dal complottismo QAnonista e, quindi, dal trumpismo neonazi-onalista e sovranista che tanto piace(va) ai leader della Lega e di Fratelli d’Italia.

Questa destra ha, come già scritto tante volte, soppiantato facilmente l’insipienza di un centrosinistra ambiguo, a parole vicino ai più deboli e disagiati, nei fatti sostenitore di quel liberismo economico che contraddice, alla fine, ogni lotta per i diritti civili e, naturalmente, è il nemico primo dei diritti sociali, sindacali, della sopravvivenza di decine di milioni di persone.

Non si tratta di esagerare nelle cifre: in Italia 20 cittadini su 100 si spartiscono lo 0,4% della ricchezza nazionale prodotta. Gli altri 80 si dividono il 99,6% rimanente.

Avremmo dovuto aver ben chiaro, dalla Storia dell’Europa novecentesca, che nei periodi di esplosione inflattiva, e di conseguente esplosione di un pauperismo sempre nuovo e sempre pronto a riversarsi sulle maggioranze che producono l’effettiva ricchezza totale di una nazione, sono proprio le peggiori forze reazionarie a sfruttare la paura del presente e il terrore del futuro per chi non ha altro da offrire se non le proprie braccia al mercato e alla finanziarizzazione del sistema.

Le forze progressiste, o presuntuosamente tali, come il PD, eredi di un riformismo socialdemocratico e di una cultura popolare del cattolicesimo di base, hanno preferito collocarsi nel campo della compromissione tra neocentrismo liberale e liberismo economico.

Il patto di governo che hanno di volta in volta sancito e stipulato con le forze più differenti, sotto l’egida di proprie rappresentanze politiche o sotto quella di tecnici chiamati a salvare la nazione dal disastro (quindi da un pericolo di allontanamento dalla difesa a tutto tondo dei privilegi del mercato e della finanza), non ha prodotto un aumento dei diritti sociali, della loro difesa e un passaggio all’offensiva del potere dei lavoratori nei confronti di quello dei padroni moderni.

Ogni tatticismo di questa natura mutevole è stato predicato come innovazione, rottamazione del passato, apertura delle istituzioni alle esigenze della globalizzazione piuttosto che al tanto incensato e osannato “interesse nazionale“.

Le destre non sono state da meno e, anzi, hanno aggiunto a questo impianto consolidato, nella ormai popolare accezione ambivalente di “governabilità” e di “modernità“, un asse privilegiato con i settori sociali più in sofferenza per sottrarli ad una egemonia culturale e civile ormai dismessa da una sinistra sempre meno sentita come avamposto di difesa della povertà da un aumento della stessa mediante azioni di governo e leggi approvate da un Parlamento svilito e svuotato nel suo ruolo originale e fondamentale.

Per caratterizzare l’attitudine di governo nella piena espressione di un pragmatismo sensibile e tangibile (oltre quelle tanto vituperate “ideologie” che, primi anche i Cinquestelle oggi divenuti uno degli assi del progressismo post-draghiano), la destra estrema, che si appresta a rientrare a Palazzo Chigi, questa volta in prima persona e senza più l’itermediazione del “moderatismo” berlusconiano degli ultimi anni, ha in programma la pacificazione sociale nel nome della concretizzazione più fedele e precisa dei dettami di quell’Europa tanto osteggiata dai leghisti e dai postfascisti.

Proprio il neo Presidente della Camera dei Deputati, non molti anni fa, tuonava anatemi contro Bruxelles e Francoforte, mentre Meloni e La Russa non facevano alcun mistero di voler essere quella cerniera possibile tra il sovranismo dei “patrioti europei” e quelli teoconservatori della Repubblica stellata trumpiana.

Adesso, queste signore e questi signori sono e saranno, eccezion fatta per la Presidenza della Repubblica (almeno per ora…), le più alte cariche dello Stato e disamministreranno gli interessi popolari per saldare ancora di più il legame tra nazionalismo e liberismo.

A vederlo così, pare una riedizione di un programma tutto reaganiano, con una aggiunta di clericalismo dal sapore tridentino, intriso di omofobia, xenofobia tutt’altro che latente, stigmatizzazione delle minoranze e richiamo alle differenze locali come a particolarismi identitari che, nella lettura economica del leghismo fontaniano, vogliono dire diversificazione dei diritti tutti a seconda della ricchezza o povertà delle regioni.

Il discorso di Fontana alla Camera, se messo accanto a quello di La Russa al Senato, è il manifesto programmatico di una destra che dal governo proverà a mostrarsi accreditabile presso le cancellerie europee e d’oltreoceano ma che, al contempo, poterà avanti una compressione delle libertà civili nel nome di una società fondata su “dio, patria e famiglia (tradizionalissima e cattolicissima)“, tentando un ritorno al passato, una pianificazione di una regressione soprattutto culturale del Paese: sul modello polacco, come ha detto apertamente Giorgia Meloni alcuni giorni fa.

Ed il “modello polacco” significa atlantismo in politica estera e reazione conservatrice in politica interna.

Significa affermazione del diritto nazionale su quello europeo, non tanto come riequilibrio delle differenze tra uno Stato e il resto dell’Unione Europea, ma come prevalenza di codici etici che contraddicono quel poco di liberalismo in materia di condivisione delle esperienze nazionali al di là dell’unico linguaggio che la UE sembra riconoscere come madre lingua comune: quello dell’economia di mercato, quello della polarizzazione capitalistica continentale.

La Russa e Fontana sono, quindi, i fenomeni (ognuno interpreti come meglio crede il termine) di un evidente deriva antisociale, inculturale e incivile tanto del nostro Paese quanto di una Europa che si colora sempre più di nero e che abbandona il compromesso socialdemocratico, nonostante in Svezia i neonazionalisti, che vanno a governare proprio simultaneamente all’insediamento del nuovo governo italiano, si facciano chiamare, per l’appunto, “democratici“.

L’ANPI fa bene a chiedere al governo che sarà una piena condivisione dei valori antifascisti che fondano la Repubblica, che ispirano la Costituzione. Riceverà, quasi certamente, della rassicurazioni di massima, entro un perimetro di cortesia e galateo puramente istituzionale. Niente di più.

Forse La Russa andrà anche alle Fosse Ardeatine o a Marzabotto, come chiedeva Bersani in televisione, perché alla dissimulazione non c’è mai fine in questi casi, ma, rileggendo il suo discorso alla Camera Alta della Repubblica, non si intravede nessuna conversione verso i valori resistenziali e antifascisti.

Sarebbe improponibile chiedere una conversione laica ad un esponente politico che, dalla prima giovinezza fino alla senescenza, ha lottato contro la democrazia e contro tutti i princìpi sociali e liberali che sono riemersi dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

Non è improponibile invece, oggi, chiederlo alla seconda carica dello Stato. Così come non è improponibile chiedere al Presidente della Camera di ricordarsi che quell’istituzione è laica e questa laicità non è barattabile, perché il cattolicesimo ha smesso di essere religione ufficiale dello Stato dal 1948.

All’apologeta cristiano Tertulliano viene attribuita una famosa locuzione teologica: «Credo quia absudum («Io credo perché è assurdo»)». Ecco, noi vorremmo non credere ad una Italia scivolata nel neonazi-onalismo identitario e retrivo delle destre estreme trumpiste e filoputiniane, eppure è così assurdo che tocca, molto laicamente, crederci, perché, purtroppo, non è assurdo ma punto di arrivo (e di continuo sviluppo) di un processo di trasformazione antropologica del Paese che dura da decenni.

Se dagli errori si deve imparare, questo è il momento per smetterla di commetterne altri rinfacciandoci le colpe, ed invece lavorando ad una unità delle opposizioni nel Parlamento e soprattutto in ogni luogo di lavoro, di studio, di socializzazione. Soltanto un nuovo “paese nel paese” potrà superare questa notte in cui tutti i postfascisti e tutti i vandeani ipercattolici sono realmente neri.

MARCO SFERINI

15 ottobre 2022

Foto di Miguel Ã. Padriñán

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