Il “campo largo” sulla manovra di bilancio delle destre

La bocciatura europea di una serie di misure contenute nella manovra di bilancio proposta al Parlamento dal governo nero delle destre non è un giudizio di classe, non è...

La bocciatura europea di una serie di misure contenute nella manovra di bilancio proposta al Parlamento dal governo nero delle destre non è un giudizio di classe, non è un rimprovero per una impostazione marcatamente liberista di una legge economica che penalizza i più fragili cittadini italiani.

E’ semmai un rimbrotto per aver eluso una parte delle direttive di Bruxelles e Francoforte in relazione ad una applicazione ancora più ligia agli standard monetari e finanziari di una Unione che si scopre oggi penetrabile dalle influenze esterne di Stati che sono petrolmonarchie, regimi assoluti che disprezzano, oltre ai poveri e al loro lavoro, anche i diritti civili ed umani.

Sarebbe un grossolano equivoco interpretare i giudizi dei commissari europei sulla manovra del governo come un invito ad una maggiore attenzione al disagio sociale diffuso; tutto va sempre incasellato nella specificità della costruzione economica di un continente che guarda ai popoli solo quando deve testarne la tenuta rispetto alle misure di rigore e di fermezza che intende mettere in campo per sorreggere la concorrenza con gli altri poli del capitale globale, del liberismo mondiale declinato ora in versione a stelle e strisce, ora in quella asiatica.

La manovra di bilancio del governo Meloni è un attacco brutto e cattivo (altro che bello e buono…) verso il lavoro dipendente e verso il mondo delle pensioni che, al netto, stanno abbondantemente sotto i 2.000 euro al mese.

La scelta della maggioranza è, fin dall’inizio, stata quella di far quadrare i conti con Bruxelles privilegiando i redditi medi, quel ceto produttivo autonomo che, fino ad 85.000 euro annui, si gioverà dall’appiattimento fiscale previsto da una “flat tax” iniqua che, infatti, ricadrà negativamente – in termini di aliquote, e quindi di prelievo – sui salariati propriamente detti.

Nonostante la spesa sociale venga compressa da tempo, con pesantissime ricadute sui comparti scolastici, sanitari, infrastrutturali, tanto per citare tre ambiti fondamentali per la vita quotidiana della stragrande maggioranza della popolazione (soprattutto indigente di lungo corso), Palazzo Chigi punta su una conferma del proprio consenso popolare in quel settore sociale che sta a metà tra la grande industria e la forza lavoro dipendente.

Si gioca tutto al centro, provando in questo modo a mantenere un equilibrio politico interno ed internazionale difficile altrimenti da sostenere qualora si privilegiasse interamente la classe padronale senza un minimo di riguardo per chi la tallona da vicino (ed evade una buona parte delle tasse) e, d’altro canto, rischiando di alienarsi il credito di fiducia di una buona fetta di elettorato se si aumentassero le pensioni minime piuttosto di quelle di artigiani, commercianti e di quella che un tempo avremmo chiamato la “media borghesia“.

Del resto, il rimprovero di Bruxelles si limita a poche voci concernenti misure per lo può correggibili in sede parlamentare, senza troppo sforzo. La pantomima sul tetto del contante e sulla cancellazione delle sanzioni ai negozianti che si rifiutassero di accettare pagamenti in POS al di sotto dei sessanta o dei quaranta euro, sembra sempre più una polemichetta artatamente combinata per distrarre l’opinione pubblica dal nucleo portante della manovra.

Mentre discutiamo se è possibile pagare con la carta di credito o con il bancomat un caffè al bar, il governo prevede l’incameramento di quasi quattro miliardi di euro dal risparmio pensionistico sulle fasce più deboli, mentre aumenta la spesa militare, promette aiuti a Kiev per tutto il 2023 e crea, nei fatti, un binomio tra autonomia del reddito medio-alto e autonomia regionale così come preventivata dalla riforma calderoliana.

L’Italia disegnata dalla manovra di bilancio e dalle politiche economiche dell’esecutivo è un pilastro di diseguaglianze, una certezza di disparità che vengono tutt’altro che assottigliate dalle misure di prossima discussione in Parlamento.

Non si può nemmeno fare conto su una unità delle opposizioni, visto che, da un lato, l’aumento del gettito per militari e guerra è approvato da un arco ipermaggioritario che va dal PD a Fratelli d’Italia, con la sola contrarietà dell’Alleanza Sinistra-Verdi e dei Cinquestelle; dall’altro la solidità della consonanza tra forze di governo e neo-centrismo calendiano trova una conferma imperturbabile proprio sul carattere iperliberista della manovra economica e, in particolar modo, sullo smantellamento dell’unica garanzia nuova introdotta in questi anni per fronteggiare il neopapuperismo dilagante: il reddito di cittadinanza.

Qui l’attacco è frontalissimo, supportato dalla faciloneria banalizzante dello stabilimento di una correlazione tra nullafacentismo dei giovani e percepimento del sussidio che, quindi, altro scopo non avrebbe se non quello di disincentivare la volontà, di appiattire l’iniziativa, di stimolare quindi l’aumento dell’occupazione. Siamo al paradosso. La colpa della mancanza di lavoro non è dell’austerità europea, delle politiche aziendali che sfruttano al massimo i già inseriti nelle aziende invece di ripartire l’orario di lavoro e permettere una espansione delle maestranze.

La colpa è dei lavoratori stessi. Tutto torna nella narrazione capitalistica di una società che, nei fatti, non risponde alle chiamate al lavoro schiavistico, alle turnazioni impossibili, al percepimento di salari da fame in una economia di guerra: quella in cui le bollette rincarano paurosamente e le aziende fornitrici di elettricità e gas vengono sanzionate dall’antitrust per aumenti ingiustificati.

Non è rassicurante nemmeno il fronte delle riforme costituzionali in materia di ricalibratura dei rapporti tra i poteri dello Stato, del ruolo del Parlamento e del Quirinale nell’ipotesi semi-presidenzialista di una Repubblica che rischia di essere trascinata alle soglie di una autoritarismo latente, carsicamente protetto da una parvenza di preservazione della democrazia che, tuttavia, non può più farsi forte di una progressività fiscale, di una perequazione che viene ridefinita sulla base sia della stabilità politica del governo, sia delle esigenze della grande finanza gestita continentalmente.

Il quadro è, oggettivamente, molto disarmante, perché non esiste un settore in cui la socialità prevalga sull’egoismo proprietario, in cui il pubblico abbia il sopravvento sul privato, in cui le istituzioni, che dovrebbero essere lì a tutela dell’interesse generale, funzionino allo scopo cui sono preposte.

Non si tratta tanto di fare ora riferimento alla sistemica corruzione che entra nei gangli delle amministrazioni, dei parlamenti e degli esecutivi, quanto, semmai, analizzare la pervasività degli interessi particolari rispetto a quello veramente nazionali (e internazionali), considerando, ad esempio, un valore fondante proprio della democrazia l’estensione dei diritti sociali e non la loro limitazione attraverso il privilegio di una parte della società rispetto ad un altra.

Qui il classismo viene scavalcato dal corporativismo che ha, proprio storicamente parlando, una matrice che si sposa alla perfezione con l’autoritarismo di Stato, con la dirigenze impositiva di tributi che, nell’essere indiretti, colpiscono in eguale modo tanto il ricco quanto il povero, proprio nel momento in cui il primo viene maggiormente tutelato fiscalmente con l’appiattimento delle aliquote e il secondo viene penalizzato, in questo frangente, ben due volte.

Cornuti e mazziati, si potrebbe chiosare sintenticamente. I risultati che la destra oggi esplicita con le politiche di governo che riesce a mettere in pratica, non sono soltanto frutto del suo programma e dello spazio che si è ritagliata in queste ultime elezioni. Se oggi è possibile colpire discriminatamente la grande massa del mondo del lavoro e delle pensioni, senza che vi sia una grande sollevazione in merito, nonostante la mobilitazione sindacale di questi giorni, è perché il lavoro di erosione dei diritti è stato portato avanti anzitutto dalle forze del centrosinistra che fu.

Non possiamo esimerci da questa critica che, come colpa grave di un falso progressismo italiano, deve essere sottolineata ogni volta possibile se si vuole archiviare quella stagione e non fantasticare di un PD riformabile, rivedibile, riconsiderabile nella sfera di un nuovo “campo largo” già alle regionali prossime, per far riemergere una speranza di alternativa alle destre.

Con politiche di destra non si costruisce nessuna alternativa sociale alle destre che, in più a tutto ciò, aggiungono politiche incivili e incostituzionali sul terreno dei diritti umani, dell’uguaglianza e del rispetto delle differenze, delle minoranze di ogni tipo.

Il rimprovero europeo a singoli aspetti dalla manovra di bilancio del governo Meloni suona per quello che è: una bacchettata per aver messo l’attenzione popolare su piccolezze, distraendo una parte dei miliardi del PNRR su questioni di pochissima importanza. Le lodi, infatti, arrivano: tanto da Gentiloni quanto da Dombrovskis, perché la maggioranza meloniana si è adeguatamente mossa nel solco del draghismo.

Possiamo stare tranquilli: Meloni o Letta, l’agenda Draghi sarebbe stata seguita ed eseguita comunque. Senza ombra di dubbio alcuno.

MARCO SFERINI

15 dicembre 2022

Foto di Skylar Kang

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