Dalle donne all’umanità e al mondo intero

La Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne deve avere come punto di partenza, attorno al quale fare ruotare tutta una serie di considerazioni più che lecite e opportune,...
Statua dedicata alla femminista inglese Millicent Fawcett

La Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne deve avere come punto di partenza, attorno al quale fare ruotare tutta una serie di considerazioni più che lecite e opportune, il tema dell’ineguaglianza.

Non tanto quella avvertita dalle donne stesse nei confronti degli uomini, dei “maschi“, per riportare un attimo l’attenzione sulla questione millenaria di genere e anche di sesso (del resto ci si riferiva – forse ci si riferisce ancora – alle donne come al “sesso debole“); quanto semmai quella che gli uomini medesimi dovrebbero sentire quando, senza apertamente proclamarsi tali, irrompono oltre il confine morale e propriamente fisico del femminile, della donna.

La diversità biologica è stata, per lungo tempo, fonte di discriminazione: poiché si reputava il ciclo mestruale quasi esclusivamente come l’unica origine delle umoralità femminili, ne discendeva come conseguenza che la donna fosse inidonea a ricoprire determinati ruoli, incarichi importanti, anche pubblici e di Stato. Una donna non poteva arrabbiarsi al pari di un uomo, nemmeno avere crisi isteriche e sentirsi furibonda: isteria e rabbia venivano ricondotte alla specificità naturale della funzione procreatrice, non ai sentimenti simili (visto che variano a seconda del contesto in cui si nasce, cresce e ci si sviluppa socialmente) tra una metà del cielo e l’altra metà del cielo.

E’ comprensibile ma non giustificabile che una umanità che ha fatto delle donne, dai tempi di madre Eva, la protesi servile dell’uomo nella vita di tutti i giorni e del maschio anche a letto, abbia ancora oggi un rigurgito antifemminile, una mal sopportazione delle rivendicazioni morali, civili e sociali delle donne. Macchine riproduttive, private del diritto di parola, custodi del focolare e levatrici di figli: portatrici di dote, in quanto impossibilitate ad avere una propria autonomia economica mediante un lavoro, una qualsiasi occupazione che è spettata, sempre e soltanto, all’uomo simbolo di forza, muscolarità dei nervi, delle parole.

Il “pater familias“, del resto, non è cultura domestica del Medioevo o dell’età moderna: le leggi sulla famiglia formulate da Augusto, che punivano il tradimento coniugale con l’esilio da Roma, non sono state emanate dal nostro Senato, ma da quello appunto della Roma di duemila e più anni fa.

Si tratta di guardare molto indietro nella storia del cammino umano, in una bibliografia dei comportamenti che sta nei cosiddetti “testi sacri“, nella Bibbia anzitutto, ma che non prescinde da altre interpretazioni religiose dell’esistente in cui viviamo: il rivoluzionario Gesù, profeta contro ogni diseguaglianza, chiamato “figlio di dio” per altre ragioni, cambia la legge dei Padri, quella di Mosé, e redarguisce severamente chi vuole lapidare una donna per il suo adulterio. La parola “peccato“, cristianamente intesa, rimanda alle colpe da espiare presso la divinità: per una interpretazione più laica e – se vogliamo – storicamente intesa, può anche essere tradotta come “responsabilità personale” verso chicchessia, così come verso la società organizzata.

Ma allora, come oggi, il peccato vigila quotidianamente sulle nostre vite: il senso del peccato, istilltoci fin da quando eravamo bambini, insieme al timor di dio. Tutti i poteri potessibili si sono saldati, nei secoli dei secoli, per stringere una alleanza patriarcale che facesse delle donne quella parte della società subordinata all’uomo che dominava ogni ambito della vita e che non consentiva al femminile di imporsi o, se non altro, di divenire equipollente con il maschile.

Sesso e genere si confondono e si saldano nella lotta femminista contro la dominazione del patriarca globale che regna su tutti i continenti: dal tribalismo alle più evolute civiltà occidentali e asiatiche. «La donna è mobile, qual piuma al vento…» afferma di Duca di Mantova, quindi frivola, leggera e leggiadra, si lascia trasportare priva di carattere dalle volontà umane, dall’impalpabilità del destino, da una sorte che diventa alibi e leggenda.

Da amabile ninfa, gioiosa creatura agreste, diventa naiade, dea delle scorrive acque dei fiumi e poi anche perfida ingannatrice di Odisseo, sirena dal canto suadente e tanto perverso e menzognero, per poi tramutarsi in strega gettata sul rogo dalla santissima Inquisizione, non solamente spagnola. Almeno i greci avevano, nella loro traduzione psicologico-religiosa della vita, assegnato alla donna anche il ruolo di dea accanto all’uomo. Sposa di Zeus, figlia di dei e compagna di mitologici eroi: capace di amare e di essere amata, ripudiata e condannata a vivere sotto forme invertebrate per il resto del tempo. La democrazia ellenica qualche marcia in più, effettivamente, l’ha sempre avuta.

Il costrutto religioso ha per millenni fatto della donna tanto la madre di dio quanto la sorella di clausura, cui ogni sguardo maschile o di mondo è vietato e per cui si fa peccato anche soltanto a pensare alla propria femminilità al di fuori della bolla procreatrice e del contesto familistico dove sessualità fa rima con vera e propria famiglia proletaria nel caso di classi povere e di lunga discendenza di eredi nel caso si tratti di regnanti sovrani benedetti, ovviamente da domeniddio.

La differenza di classe entra prepotentemente nel capitolo della diseguaglianza, tra mercanti e servi (avrebbero cantato “I Nomadi“), tra nobiltà e casa reale o imperiale. La donna del povero può fare incapricciare il potente che ha diritto sui diritti altrui che non esistono perché la parola del proletario non vale nulla. Il disonore è sempre della donna, mentre la virtù è costantemente abbarbicata all’uomo, quasi preda del maschio che ha ogni diritto di godere e nessuno di soffrire. La donna soltato deve subire e porta con sé ogni vergogna che la società possa immaginare per lei e farle sentire addosso con gli sguardi giudicanti che non hanno perso molto smalto nel corso dei secoli.

Per questo la lotta di classe diventa ancora oggi la migliore chiave interpretativa del substrato di diseguaglianze che stanno alla base del trattamento ineguale tra uomo e donna: il potere maschile è anche ricercabile nella infelice tradizione millenaria che non risparmia nessun continente, ma è anche riscontrabile in una mancata rassegnazione dell’uomo a considerarsi uguale alla donna. E’, in fondo, un privilegio indotto da una morale collettiva che a parole condanna senza se e senza ma ogni violenza contro le donne, ogni derisione del femminile, dipinto come fragilità di cui prendersi cura (nel migliore dei casi) o come capriccioso isterismo se chi si agita è una donna che reclama i suoi diritti di essere vivente, uguale, ma proprio uguale a tutti gli altri esseri che vivono su questo pianeta.

Strada lunga quella della presa di consapevolezza del diritto in quanto tale e non in quanto concessione di qualcuno verso qualcun’altro per il valore che gli si vuole e si può attribuire (laddove per potere, è evidente, si intende la dominazione e non la mera possibilità offerta da una volontà positiva). Ma ogni lotta si lega ad un altra: nessuna lotta sociale è scindibile da quelle civili e nessuna lotta per il massimo di uguaglianza possibile, arrivando all’antispecismo e al riconoscimento che non siamo dominatori di niente e di nessuno, tanto meno degli animali differenti da quegli animali che siamo pure noi, è mai esagerata o esagerabile.

I diritti non si riconoscono: si vivono comunemente. L’uguaglianza di specie, di genere, di etnia, di qualunque differenza riscontrabile nel mondo, è una esigenza naturale in una natura completamente stravolta dal dominio umano, dal predominio maschile e patriarcale, in questo frangente. Un capovolgimento della storia, è una vera e propria rivoluzione. Anticapitalista. Altrimenti è solo la sostituione di un male maggiore ad opera di uno minore.

MARCO SFERINI

25 novembre 2020

Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay

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