Spagna e Italia, un confronto impietoso per il nostro Paese

A volte le elezioni politiche di un paese finiscono col riguardare molto di più gli effetti esterni che comportano rispetto alle ripercussioni interne. Lo scenario che esce dal voto...
Pedro Sánchez

A volte le elezioni politiche di un paese finiscono col riguardare molto di più gli effetti esterni che comportano rispetto alle ripercussioni interne. Lo scenario che esce dal voto spagnolo del 23 luglio somiglia abbastanza a questa iperbole da confronto. Arrivare primi e vincere coincidono nella maggior parte dei casi; altre volte, come nel caso in questione e, segnatamente, per la sorte toccata al Partido Popular, diventano due scenari quasi dicotomici.

Un’altra iperbole questa, necessaria per esagerare un po’ quanto accaduto ed escludere la retorica universale tanto degli sconfitti quanto dei vincitori, tanto degli ultimi quanto dei primi e il ricorso mai evitabile ad una certezza di affermazioni che, alla fine dei conti, finiscono con il livellare le posizioni e far sembrare tutti contenti, tutti più o meno soddisfatti.

Si chiamano in causa, a questo proposito, centomila alibi dettati da contingenze che arrivano in soccorso, più che altro sul piano della mera propaganda post-voto, quando si deve giustificare scelte azzardate, pronostici snocciolati con la sicumera arrogante tipica dei boriosi che ritengono di avere qualcosa in più oltre alla ragione delle loro proposte (anti)sociali, economiche, (in)civili e persino largamente immorali, qui senza bisogno di alcuna parentesi…

Le elezioni spagnole parlano chiaramente: il bipolarismo è un tratto distintivo del voto.

La polarizzazione dell’elettorato si legge nei consensi dati al PP e al PSOE del premier uscente Pedro Sánchez che, dimostrando di avere un intuito tattico-politico, ha rischiato ancora una volta e ha raccolto i frutti di questo azzardo. Gli spagnoli non vogliono Vox al governo del paese, lo fanno precipitare di quasi un milione di voti, gli fanno perdere diciannove deputati e lo relegano comunque a terza forza politica con un -3% dei consensi.

Sempre gli spagnoli, a discapito dei neofranchisti di Abascal, ingrossano i numeri del conservatorismo “moderato” (molto, ma molto tra virgolette) del PP di Alberto Núñez Feijóo, ma non gli conferiscono quella possibilità di formare una maggioranza stabilmente alternativa al precedente governo della sinistra socialista e di alternativa.

Le comunità regionali, che esprimono storici partiti autonomisti ed indipendentisti, tornano a farsi sentire premiando nei Paesi Baschi la scelta di sostegno alla izquerda, per un frente amplio che, se impossibile da realizzare con lo storico (destrorso) Partito nazionale basco, si tenta con le forze che danno la garanzia di una maggiore autonomia, mentre in Catalogna alla frana per Esquerra Republicana corrisponde un ottimo risultato del PSOE e uno pregevole per Sumar.

Il messaggio che viene, quindi, da una analisi circostanziata e sintetica al tempo stesso del responso delle urne è una seconda occasione per una coalizione di governo che vada dal partito di Sánchez a quelli che si sono battuti anche nella legislatura passata per un rafforzamento della democrazia spagnola, per una riaffermazione risoluta di un paese composto da tante particolarità che si possano riconoscere dentro uno schema nazionale non centralisticamente castigliano, oppressivo e magari pure repressivo.

Non è un mistero che Vox abbia nel suo programma (di governo) la messa al bando dei partiti e dei movimenti che reclamano una sostanziale e più sentita autonomia da Madrid per le loro comunità regionali.

Non è un mistero che Vox affermi tutto questo come erede di un falangismo neofranchista che, se avesse avuto la meglio in queste elezioni, avrebbe ricondotto la Spagna nel solco di un nazionalismo fatto di tante correzioni di riforme che invece hanno significato un consolidamento dei princìpi democratici.

Abascal perde, il PP prevale ma non vince. Il PSOE e Sumar tengono le loro posizioni e, anzi, il primo polarizza su sé stesso un consenso che va oltre la sperata “remontada“.

La sinistra è stata capace di mostrare in campagna elettorale e, prima ancora, al governo del paese, di essere in grado di intervenire – pur con molte contraddizioni e questioni ancora da risolvere al suo interno in quanto coalizione di maggioranza relativa – nella straordinarietà della crisi sociale, economica e culturale che uniforma la Spagna al resto dell’Europa e del mondo.

Oggi potevamo essere qui a commentare un risultato molto diverso se, probabilmente, l’azione di governo del PSOE e di Unidas Podemos non avesse dato modo alla izquierda di dimostrare nei fatti che la tutela del lavoro e dei bisogni primari di una larga parte della popolazione indigente è stata, tra gli altri temi sociali e civili, al primo posto di una agenda di governo che va riproposta ed innovata.

Se il “caso italiano” delle destre postfasciste al governo rimane una sorta di unicum nell’Unione Europea, con le similitudini che si possono comunque individuare negli esecutivi visegradiani di Budapest e Varsavia, lo si deve più di tutto ad una enorme differenza tra la molto più temporalmente vicinanza degli spagnoli alla dittatura di Franco rispetto a quella di Mussolini per noi italiani.

L’impronta politica, sociale e culturale della nostra Costituzione, che avrebbe dovuto marcare una netta distinzione col passato fascista dell’Italia (e non soltanto con quell’Italia che si diceva ed era fascista…), sembra avvicinarsi sempre di più ad un redde rationem con una mancata elaborazione di un lutto dittatoriale che viene continuamente rimpianto

E quando non è così, viene rinvigorito da nostalgismi ideali e da rigurgiti malpancisti di una fetta di popolazione che mescola le peggiori frustrazioni reali con i peggiori istinti e le più sordide voglie di un riscatto a discapito sempre dei più fragili, dei meno tutelati, dei più discriminati.

Da quel che si legge e si vede, non che questa draconiana divisione non esista anche in Spagna: il fenomeno di Vox è lì a dimostrarlo. Ma è abbastanza evidente la tenuta di una alleanza tra sinistra socialista moderata e sinistra di alternativa. Lo schema qui funziona e permette di mettere vicini gli elettori, le persone che la pensano in modo diverso senza ricorrere esplicitamente al voto utile contro i propri vicini di seggio nel Congresso dei deputati o nel Senato.

Per molti anni in Italia, addirittura per decenni, le sinistre si sono fronteggiate, si sono fatte una guerra non dichiarata, ma reale, vissuta con grande disagio da parte di tutte e tutti coloro che reclamavano una unità mai veramente realizzata.

Ne è venuta fuori una dicotomia lampante, quasi accecante, un disorientamento generale che ha consegnato il popolo progressista alla diaspora, nelle braccia del populismo grillino prima, dei sogni modernizzatori del renzismo poi e, infine, in parte, anche nel voto di protesta per le destre o nella non partecipazione, nel non voto.

La percentuale dell’astensione in Spagna oggi la potremmo considerare qui da noi straordinariamente bassa. In Italia vota oramai la metà degli aventi diritto, quindi è del tutto evidente che la crisi della democrazia, prima che in Spagna, oggi sta tutta quanta in Italia.

Perché nello Stivale le destre hanno, grazie ad una latitanza della sinistra moderata e ad una tendenza isolazionista di quella di alternativa, trovato lo spazio politico cui far aggrappare gran parte del ceto medio e delle classi disagiate ad una prospettiva di disperazione da risolversi con la risolutezza dell’intervento dello Stato in chiave liberista: convertendo il bilancio pubblico alle esigenze del privato, facendo passare tutto questo come una grande innovazione moderna.

Il Partito Democratico ha, almeno fino all’avvento della segretaria Schlein, rappresentato un centrosinistra che è stato parte del problema sociale per una politica che solo a parole affermava di avere intenzione di tutelare anzitutto il lavoro rispetto ai desiderata ed alle “naturali” esigenze del ciclo capitalistico declinato nel liberismo più esasperante. La sinistra è scomparsa come orizzonte ideale nel momento in cui ha cessato di essere il normale punto di riferimento degli sfruttati.

Ciò che è rimasto dell’opzione “radicale” e di alternativa ha dovuto fronteggiarsi con una ostilità permanente proprio da parte del centrosinistra che, in quanto tale, ha difeso un interclassismo incomprensibile e lontano da quelle rivendicazioni sociali che avrebbero invece dovuto trovare piena applicazione nelle politiche di una forza riformista e, ovviamente, in quelle di altre formazioni alleate di sinistra comunista, ecologista e comunque antiliberista.

Mentre in Spagna l’opzione di una “unità nazionale” sul modello draghiano è stata esclusa, e così anche in Francia, e mentre in Germania si andava sempre più approfondendo il solco tra CDU e SPD, in Italia si è fatta strada una saldatura tra politica neonazionalista e liberismo economico, nonché tra l’europeismo “patriottico“, condiviso da Meloni e Abascal, e l’atlantismo come linea di condotta in politica estera.

Il voto spagnolo, dunque, si riflette sulle questioni del Bel Paese molto di più di quello che, in certi termini, avrebbe potuto significare se si fosse formato un governo guidato da Partido Popular e Vox. In quel caso, Meloni e alleati avrebbero avuto la conferma di una crescita del popolarismo e del conservatorismo in larga parte di una Europa chiamata al voto il prossimo anno e certa di virare a destra un po’ ovunque. Oggi questa certezza granitica non c’è.

Ma non è detto che sia scomparsa del tutto la minaccia di una “ondata nera“: le crisi di una economia traballante sono sotto gli occhi di tutti e stanno lì a lasciar presagire che, in qualunque momento, la guerra, il cambiamento del clima, le migrazioni continue dai continenti più poveri e martoriati, possono essere quell’attimo congiunturale favorevole per l’esplosione di nuovi malcontenti indirizzabili verso destra.

La sconfitta di Vox non è una disfatta, ma una sonora battuta d’arresto per un partito che aveva puntato tutto, ma proprio tutto, sulla convergenza con un PP che si sarebbe dovuto parimenti rafforzare e quindi replicare nazionalmente quanto avvenuto nelle elezioni regionali del maggio scorso. La linea di Abascal e del suo gruppo dirigente ne esce quindi sonoramente sconfitta e non è detto che questo non abbia ripercussioni anche interne al partito neofranchista.

La coalizione di maggioranza in Italia annota il tutto. Fratelli d’Italia continua ad essere nei sondaggi sul 30%, Lega e Forza Italia al di sotto, ciascuna, del 10%. Troppo poco per essere l’una la vera destra concorrente del melonismo, l’altra il perno attorno a cui si può costruire una specie di idea di nuovo “centrodestra“.

Il timore aggiunto è che, se dovesse prendere corpo uno scenario di questo tipo, con fibrillazioni interne al perimetro di governo tra destra e destra e tra destra e centro, si possa di conseguenza riproporre lo schema della chiamata emergenziale all'”unità nazionale“.

Per battere le destre, forse, ma non per fare, immediatamente dopo, una politica di sinistra. Una politica come quella fatta in Spagna dal PSOE e da Unidas Podemos che ha permesso alla izquierda di non indietreggiare, di fermare l’avanzata fascista, di impedire il governo più vicino a quell’autotarismo criminale che fino al 1975 ha condizionato pesantemente le vite di un popolo con la repressione, la carcerazione, l’omicidio e la negazione dei diritti più elementari e fondamentali.

Un applauso alla Spagna, un altro omaggio alla Catalogna. Questa volta non sono proprio passati.

MARCO SFERINI

25 luglio 2023

foto tratta dalla pagina Facebook nazionale del PSOE

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