“Operazione centro” e progressismo di facciata per il PD

Più che giustamente, una serie di commentatori politici si è domandata, in questi giorni di trattativa sul perimetro delle coalizioni in vista del voto di settembre, come mai alle...

Più che giustamente, una serie di commentatori politici si è domandata, in questi giorni di trattativa sul perimetro delle coalizioni in vista del voto di settembre, come mai alle sbandierate dichiarazioni di necessità di un “campo largo” contro le destre sovraniste non sia corrisposta l’uguale volontà di dare concretezza alle intenzioni.

Almeno a quelle a lungo manifestate, non fosse altro per far intendere che l’antifascismo, la difesa della Costituzione e dei suoi valori fondanti sul piano civile e su quello sociale siano ancora alla base di un progressismo moderato, molto di facciata e per niente scontato per la sola storia che si ha alle spalle.

Gli stessi commentatori, mentre si saldavano le fondamenta di un nuovo progetto centrista con l’accordo tra Letta e Calenda, continuavano a scervellarsi su come non fosse possibile che, per lo meno tecnicamente e nel grande scontro maggioritario dei collegi, si saldasse un accordo oltre l’unità nazionale draghiana, un patto di salvezza repubblicana per impedire alle destre di avere la maggioranza dei seggi in Parlamento e poter quindi, nel caso di ottenimento dei due terzi degli scranni delle Camere, modificare anche la Costituzione in modo radicale e senza troppi infingimenti.

Gli interrogativi che un po’ tutti ci siamo posti in queste settimane sono più che legittimi. Ma bisognerebbe comunque provare a dare delle risposte; non fosse altro a quelle domande che sembrano non avere un’origine contingente, ma provenire invece da molto lontano nel tempo, prima della legislatura appena conclusasi, quando ancora il berlusconismo aveva dato avvio all’altalena di una alternanza anomala tra agglomerati di forze politiche, instaurando il diktat preventivo del “voto utile“.

Per prima cosa, se si vuole evitare di farsi domande inutili e aprire spiragli a discussioni che finiscono con l’essere sterili, dati gli attuali rapporti di forza politici ed anche economico-sociali, serve prendere atto dell’impossibile: e, ad ora almeno, ciò che è irrealizzabile è proprio quello che l’appello di studiosi, intellettuali, giuristi ed economisti su il manifesto del 3 agosto scorso auspicava: un patto elettorale, del tutto tecnico, per la partita dei collegi uninominali maggioritari che andasse dalla sinistra fino a Calenda e Renzi.

E’ più che giusto affidarsi al buon senso e alla creanza, alla responsabilità davanti all’avanzare delle destre estreme che rischiano di governare il Paese nel centenario della presa del potere da parte dei fascisti, ma è necessario altresì prendere atto che non esistono le condizioni pure minime per dare concretezza ad un fronte così ampio di salvezza della Repubblica da chi ne vorrebbe sovvertire i princìpi e valori fondanti.

Purtroppo, se questo discorso lo si può fare interamente per quanto riguarda lo schieramento del tridente sovranista, in parte occorre farlo anche per quell’ex centrosinistra che oggi lascia spazio solamente al centro e che, anzi, rafforza proprio i settori più intransigenti della proposta liberista, di quella fantomatica “agenda Draghi” che viene evocata – peraltro giustamente – come l’antitesi di una agenda sociale, ambientale, antibellica, pacifista e anti-atlantista.

Il PD è il “grande baro” di questa partita: finge di voler dare vita ad una coalizione progressista e democratica mentre si appresta a diventare il punto di riferimento dell’imprenditoria italiana ancora una volta.

E in questo frangente, ricorre ancora la simbiosi tra il formalmente detto e il praticamente fatto: il primo sono le dichiarazioni di voler continuare a rappresentare i ceti sociali più deboli e delusi dalla politica di palazzo; il secondo è la sostanza: essere la sponda delle ragioni di un mondo privato, di un mondo finanziario e padronale che esige il contrario di quello che un vero polo progressista dovrebbe fare. La tutela del mondo del lavoro non è nell'”agenda Draghi” che, come ha in tutta franchezza detto Calenda, si oppone ad una “agenda Landini“.

Significa che il punto di vista da cui guardare le grandi problematiche sociali del nostro tempo non può essere univoco: non c’è nessuna possibilità di far convergere il liberismo di Draghi, del PD, di Calenda e Bonino con le istanze portate avanti dal sindacato e dalle forze sociali che rappresentano i lavoratori, i precari, i disoccupati, i pensionati e tutto quel vasto mondo di povertà che cresce a dismisura.

Se non fosse stato chiaro nell’anno e mezzo di vita del governo di unità nazionale, le proposte contenute nel Decreto legislativo “Aiuti bis” evidenziano ancora una volta la linea antisociale dell’esecutivo: elemosine ancora più ridotte per salari e pensioni rispetto ai 200 euro elargiti nel mese di luglio a coloro che stavano sotto al reddito annuo pari a 35.000 euro.

Questa sarebbe dunque la cosiddetta “agenda Draghi” che, Calenda per primo e Letta per secondo, vogliono mettere a fondamento del loro programma di governo?

Se si tratta di questo, è del tutto evidente che sarebbe la pietra angolare per una proposta politica i cui candidati, espressi nei collegi uninominali, la ricalcherebbero appieno; perché si parla non di tecnicismi elettoralistici che prevalgono per un’attimo sulle ragioni pratiche, nel nome del bene comune, bensì di un tentativo di accaparrarsi dei voti, sottraendoli soprattutto a sinistra, per dare all’arco di centro un carattere progressista che non possiede minimanente e, nel nome di ciò, continuare sulla scia del draghismo di ultima annata.

Ed inoltre, come sarebbe possibile chiedere agli elettori davvero di sinistra, davvero antiliberisti ed ecologisti, in nome di un patto tecnico, di una specie di moderna “svolta di Salerno” o, molto più modestamente, di una rivisitazione dell’antica “desistenza“, di votare nel maggioritario per chi negherebbe e contrasterebbe in Parlamento ciò che invece esprimono i propri partiti di riferimento nella proporzionale.

Il voto disgiunto non è previsto e, pertanto, bisognerebbe sacrificare il proprio consenso, le proprie convinzioni e i propri interessi (di classe) da tutelare nel nome di una responsabilità nazionale che sarebbe successivamente riconosciuta nella tutela dei profitti e delle imprese?

Abbiamo il dovere di proteggere lo Stato, la Repubblica e la Costituzione da assalti di forze che vogliono smantellarne, pezzo dopo pezzo, l’impianto originario, sia civile sia sociale. Ma abbiamo anche il diritto di poter fare questo senza dove ridurre il nostro voto ad un mero atto tecnico, svuotandolo del contenuto più prettamente politico che ne è, alla fine, la natura prima e necessaria per chiarire, nella sintesi nazionale, il volere del corpo elettorale, di tutti i cittadini.

Non è dato sapere quale sia la logica che ha mosso Letta e il PD in questa partita di accordi e disaccordi. Una cosa pare abbastanza certa: non se ne comprende la ratio se non ammettendo che ci troviamo davanti ad un partito che non ha più nulla di sinistra da molto tempo, e che soltanto il sostegno mediatico di televisioni e giornali, oltre al sogno socialdemocraticamente infranto dal neocrentrismo dilagante, ha mantenuto in vita come punto di riferimento del progressismo italiano.

L’emergere dei populismi di varia natura, nel corso degli ultimi vent’anni, ha poi sdoganato una serie di anti-culture autoritarie, dal retrogusto neofascista che oggi si verginizzano e pretendono di avere, non solo la dignità, ma anche la patente per poter parlare di democrazia al posto di quella sinistra che l’ha fondata oltre settanta anni fa, dopo una guerra partigiana, dopo una rifondazione nazionale approdata al necessario mutamento repubblicano, ad una laicità che non è, purtroppo, mai stata veramente del tutto messa in essere.

Anche se ci affidassimo solamente ad un mero calcolo elettoralistico, quello che Letta e Calenda hanno messo insieme fino ad ora è ben poca cosa per fronteggiare quella corazzata di destra che, con grande, rassegnata scontentezza, un po’ tutti danno per vincente, prescindendo pure dai sondaggi.

Sembra quasi che si creda soltanto nella limitazione del danno, nell’ottenere una percentuale di seggi e collegi atta a frenare l’espansionismo sovranista in Parlamento, impendendogli almeno di raggiungere i due terzi delle Camere, obbligando il futuro governo e la futura maggioranza a confrontarsi con le opposizioni. E’ una tattica molto riduttiva, un giocare sulla difensiva. Ma se si sostiene a tutto tondo l'”agenda Draghi“, non si può pretendere che forze di sinistra, sia moderate sia radicali, siano ben disposte ad un accordo tecnico per fermare l’impero del male.

E’ un ben triste panorama politico quello in cui l’unica differenza che continua ad esistere tra destre e centro-ex-sinistra è una difesa di dei diritti civili che, senza una adeguata tutela di quelli sociali, sono purtroppo difficilmente applicabili e sostenibili.

Gli appelli e i richiami alla responsabilità, davanti alla prepotenza economica che impone nuovi schemi di alleanze per mettere al sicuro lo schieramento confindustriale e finanziario, purtroppo valgono come vox clamantis in deserto. Hanno la funzione della cattiva coscienza, del rimbrotto etico-politico che cerca di bussare alle porte di una politica che ha cambiato dinamiche e che ha cambiato, in particolare, interlocutori.

Votare per le proprie idee, espresse in una forza politica, non dovrebbe essere una rinuncia ad un senso di responsabilità nazionale, ad una partecipazione collettiva ad un obiettivo ben preciso. Votare per il partito in cui si ripone fiducia dovrebbe essere il sale della democrazia. Ecco spiegato perché, oggi, così tanta parte della politica italiana ha pochissimo sapore, ha un gusto indigesto e spingerà, senza ombra di dubbio, milioni di italiani a disertare le urne.

MARCO SFERINI

4 agosto 2022

Foto di Hasan Albari

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