Draghi – Bonomi – Letta, il tridente del liberismo italiano

La foto, già di per sé, è quel “patto” che Bonomi richiama e chiede a Draghi. Non come ai tempi del Conte bis, quando i rapporti tra governo e...

La foto, già di per sé, è quel “patto” che Bonomi richiama e chiede a Draghi. Non come ai tempi del Conte bis, quando i rapporti tra governo e Confindustria erano tesissimi. Adesso basta l’apparizione dell’ex banchiere europeo all’assemblea annuale dell’associazione padronale per sollevare un’ovazione che infiamma il parterre degli imprenditori, sicuri che un liberista come loro – più per fede che per collocazione strutturale nel sistema capitalistico – saprà accogliere fino in fondo le richieste di quello che ufficialmente, e molto impropriamente, definito “un sindacato“.

Il programma del Governo collima perfettamente con le richieste di Confindustria: nessun rialzo delle tasse, sospensione delle misure antidelocalizzazione delle aziende, che il timido riformismo di PD e il trasversalismo pseudo-sociale dei pentastellati vorrebbero invece approvare al più presto nel paniere del cronoprogramma del PNRR, e poi ancora farla finita con “Quota 100” e con il reddito di cittadinanza.

Bonomi auspica una collaborazione diretta con l’esecutivo, vuole tagliare fuori tutte le beghe politiche, quel sale della democrazia che va un po’ troppo negli ingranaggi della macchina amministrativa ed impedisce la celerità, l’immediatezza di riforme che vadano nella direzione indicata dal Bruxelles e Francoforte: i padroni hanno il timore che, senza un impegno deciso del governo in questo senso, la seconda tranche di aiuti finanziari all’Italia, nel solco del post-pandemia, potrebbero essere messi in discussioni e, quindi, toccherebbe a loro mettere mano al portafoglio per regolare gli squilibri del mercato che ne deriverebbero.

Ma Draghi saluta gli industriali, accetta l’ovazione, allarga le braccia, alza le mani al cielo e li abbraccia virtualmente. Dalla tribuna farà anche di più: confermerà che la linea di politica economica del suo gabinetto non è quella del PD o quella della Lega; non è quella dei Cinquestelle o quella di Renzi. E’ la sua. Quella del tecnico sempre più politico, che ai padroni ricorda il felice periodo di Ciampi, il “felice 1993“, appena dopo la crisi di Tangentopoli e la caduta del Pentapartito, appena prima della grande ondata antidemocratica e antisociale del ventennio berlusconiano.

Non c’è alcun dubbio possibile per Draghi: il bene del Paese lo fanno e lo decidono le imprese. Il lavoro deve essere considerato una variabile necessariamente dipendente cui si deve concedere quel tanto per evitare che la ghiotta occasione della ripresa economica post-Covid possa essere turbato da una rottura di una pace sociale che non viene invocata ma che, nei fatti, è ciò che si augurano anche Landini e gli altri sindacalisti. Il segretario della CGIL, dopo il discorso del Presidente del Consiglio all’assemblea dei padroni, batte un po’ i piedi, recalcitra su evasione fiscale e sui contratti collettivi e nazionali, sulla stabilizzazione dei posti di lavoro, ma poi si dice attendista. Vuole aspettare a vedere le prime mosse autunnali del governo.

Draghi non stupisce affatto nel suo discorso, nel suo protendersi a trecentosessanta gradi verso le ragioni di classe di Confindustria. Landini invece un po’ stupisce, anche se si può comprendere la difficile posizione della CGIL in questo dinamismo politico-economico, in questa partita a due tra Palazzo Chigi e Viale dell’Astronomia: non c’è un governo amico e non c’è sentore di aperture di dialogo con la controparte che, meno del passato, proprio per la presenza rassicurante del facilitatore Mario Draghi (“l’uomo della necessità“, lo incorona il presidente degli industriali), richiude gli artigli e mostra solamente la tradizionale sicumera.

Con la paradigmatica “preservazione delle relazioni industriali” Draghi intende riaffermare quel primato del profitto su ogni esigenza sociale, su ogni difesa dei beni comuni nel mantenerne la pubblicità, il carattere comunitario ed egualitario, spingendo la politica italiana verso una nuova stagione di adeguamenti alle fluttuazioni borsistiche e alla preservazione esclusiva dei dividendi aziendali da parte degli imprenditori, relegando il mondo del lavoro al mero ruolo di classe che ha e che deve avere senza eccezione alcuna.

Le rivendicazioni dei lavoratori, dei precari e di tutti coloro che sopravvivono aggrappati al tanto paventato “rischio di impresa“, quindi di speculazione finanziaria dei grandi capitalisti, di investimenti azzardati per ottenere sempre maggiori guadagni, sembrano (e sono per lor signori) di seconda importanza: l’azzeramento del rischio è impossibile perché non si può chiedere ad un industriale di non gareggiare nel mare magnum della concorrenza, ma almeno gli si potrebbe imporre una serie di norme più rigide sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, una tassazione dei capitali che finanzi le tante diseguaglianza sociali e la stipula di contratti fatti per durare e non per essere liquidati, come alla GKN di Campi Bisenzio, al primo sentore di maggiore profitto in un altro Stato europeo.

Il tema delle delocalizzazioni è uno di quelli su cui gli imprenditori mettono l’accento: Bonomi lo sa e lo dice chiaro e tondo a Draghi. Le attuali norme che limitano la possibilità di spostare gli impianti oltre confine vanno superate, al pari delle minime tutele introdotte da governi non certo bolscevichi in questi ultimi anni. Una parte di Confindustria rimane prudente su questo, guardinga nei confronti del governo. Non si fida dei rapporti interni alla maggioranza.

Ma, proprio mentre Marcegaglia e altri dubitano e stanno in campana, ecco che arriva rassicurante il tweet di Enrico Letta: le parole di Draghi sono la realizzazione – pare – del programma del PD in campo economico e politico. Il federatore del nuovo centrosinistra rievoca – al pari dei padroni – lo “spirito felice del 1993” e plaude sperticatamente al “Patto per il lavoro e la crescita” stipulato per ovazione tra il Presidente del Consiglio e il Presidente degli industriali. E’ una garanzia di fedeltà da parte del nuovo corso democratico, di completa vicinanza ai presupposti liberisti cui, ogni tanto, si cercherà di dare una pennellata di socialità rivendicando qualche mollicosa e sbriciolante riforma per attenuare gli effetti devastanti del cursus economicum draghiano-bonomiano.

La perfetta identità di vedute tra banchieri, industriali e politici devoti al libero mercato ha il suo apogeo oggi, nella fase di uscita (lenta) dalla pandemia, soprattutto se si guarda ai tentativi di conciliazione dei rapporti tra istituzioni e corpi intermedi. Mentre si consolida questo nuovo patto di classe, questo asse tra governo e padronato, il sindacato resta al palo. A guardare. Ad attendere. Non è un bel vedere, non è un bel sentire. Se questa è la “sinistra” che tanti scorgono nel PD, alternativo alle destre, allora vuol dire che la partita l’hanno giocata e la stanno giocando molto bene in Viale dell’Astronomia. A livelli molto alti. Astronomici, per l’appunto.

MARCO SFERINI

24 settembre 2021

foto: screenshot da YouTube

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