Noi, e non la Marmolada, siamo gli assassini

Dalla Marmolada, dove riposavano da sempre nevi ghiacciate tutto l’anno, è venuta giù una valanga (il termine corretto è “seracco“) che ha investito due cordate di alpinisti. Morti, feriti,...

Dalla Marmolada, dove riposavano da sempre nevi ghiacciate tutto l’anno, è venuta giù una valanga (il termine corretto è “seracco“) che ha investito due cordate di alpinisti. Morti, feriti, dispersi. Questi ultimi, a causa delle condizioni dell’alta temperatura (circa 10 gradi, che a tremila metri di altezza si amplificano notevolmente come effetto sciogliente per qui grandi blocchi di acqua gelata) sono stati cercati non con le sole squadre di soccorso, ma con i droni.

La tecnologia, con tutti i costi ecologici che il progresso scientifico impone, ma più che altro con l’impatto che il mercato liberista crea a proposito di ogni settore commercalizzabile e profittevole, ci è comunque molto utile. Guai farne a meno.

La risposta della natura agli eccessi dell’umanità nei suoi confronti, inizia a farsi sentire prepotentemente. Non si tratta più “soltanto” di qualche tsunami, di piogge devastanti, di un clima maldestramente definito “impazzito“, e che invece si comporta proprio “naturalmente“, secondo un principio di causalità che noi abbiamo determinato.

Adesso siamo di fronte ad una progressività di fenomeni che diventano costantemente evidenti, che non ci danno tregua: a cominciare dalle temperature anomale registrate per oltre un mese sull’Italia e che, come nel caso della Marmolada, hanno avuto effetti ben peggiori del colpo di caldo che, pure, può comunque essere letale.

L’alterazione delle condizioni di vita sul pianeta, tenuto conto anche della pandemia tutt’altro che finita e che, come osservano tutti gli scienziati, è destinata a non rimanere un caso isolato nella storia iniziale di questo nuovo millennio, assume i contorni di una endemicità costituente un tipo di sopravvivenza che mette in crisi prospettive di futuro date per “sostenibili“, a cui si tenta di dare un senso con tardivissime politiche di contenimento delle emissioni gassose, dell’inquinamento complessivo e dello sfruttamento delle risorse primarie rubate al sottosuolo, ai mari e ai grandi polmoni verdi del Pianeta.

La congiuntura creata da una economia energivora, capace delle peggiori devastazioni ambientali pur di soddisfare la domanda dei prodotti tecnologici resi necessari da uno sviluppo delle interazioni e delle comunicazioni che ha accelerato impressionantemente negli ultimi trent’anni, sommata ad una incessante privatizzazione di ogni bene comune, ha disposto un combinato di fattori che segna quasi il punto di non ritorno verso quella riconversione ecologica tanto sbandierata e così poco presa davvero sul serio.

La spinta propulsiva della guerra ha prodotto, sui mercati azionari e sulla finanziariazzione economica, un riprovevole ricorso immediato all’alibi necessario per la rimessa in circolo di quei combustibili fossili divenuti necessari proprio per la produzione di energia alternativa al gas russo.

L’alibi per la riapertura delle centrali produttrici di diossina non mai stato così vellicato a dovere e con l’opportunità di passare per una misura veramente necessaria, quasi avesse trovato davvero uno scopo nel suo vagabondare per decenni negli anfratti di una politica nostalgica dei vecchi affarismi siglati sulla pelle dei popoli e sul futuro dell’ecosistema.

La siccità che avanza prepotentemente nel letto del Po, il livello dei mari e degli oceani che si alza, il caro vecchio riferimento costante al “buco nell’ozono“, convitato di pietra di ogni discussione televisiva ed entrato nella vulgata comune, più che giustamente, come sinonimo di catastrofe ambientale, e poi ancora il surriscaldamento delle acque, il dissolversi dei ghiacciai eterni del Polo Nord dove gli effetti delle temperature si sentono due volte tanto rispetto al resto del Pianeta, ebbene non c’è un fenomeno meteorologico o un angolo del Pianeta che possa dirsi ancora legato agli standard climatici ed ecosistemici anche soltanto di un lustro fa.

La repentina velocità dei mutamenti ha impresso una accelerazione impressionante ad una esponenzialità degli eventi che stanno letteralmente sfuggendo di mano anche agli analisti e agli scienziati che ne monitorano le curve ascendenti, e quell’impatto sul mondo nostro (e di tutti gli altri esseri viventi) che noi siamo soliti chiamare “devastazioni” o “calamità” sta divenendo la nuova scala interpretativa delle stagioni.

Il seracco della Marmolada è una di queste eventualità, verrebbe da dire “innaturali“, che l’ambiente è costretto a subire e farci subire sperando di mostrarci a che livello siamo arrivati di sclerotizzazione dell’equilibrio del globo.

La consapevolezza della responsabilità tutta umana del sovvertimento degli equilibri climatici, e quindi, di conseguenza, dello standard di vita complessivo sulla Terra, dovrebbe fare un passo successivo: dopo la presa d’atto, ciò che serve mettere in pratica è un capovolgimento a centottanta gradi delle attuali politiche governative sull’ambiente e sulla sostenibilità del progresso scientifico nei suoi confronti.

Per essere abbastanza chiari e netti in merito, quando Mario Draghi afferma che tragedie del genere non dovranno più accadere, dovrebbe un minuto dopo fare l’opposto di ciò che fino ad oggi gli esecutivi hanno fatto per mantenere una stabilità economica che scambia la produzione della ricchezza privata con il continuo consumo dei beni collettivi: a cominciare dallo sfruttamento del territorio, dalla mancata tutela di beni essenziali come l’acqua, come le foreste e i parchi, dalla preservazione dell’aria che respiriamo ogni giorno.

Draghi, se davvero ritiene che sciagure come quella avvenuta in Trentino non si debbano ripetere, non può sostenere un progresso industriale, infrastrutturale ed economico che mira al potenziamento di grandi opere come il TAV, come le trivelle nei mari, come i ponti sugli stretti, la privatizzazione delle grandi reti idriche nonché un trasporto delle merci che continua in prevalenza a viaggiare su gomma e produrre un inquinamento esorbitante.

Gli studi commissionati da Bruxelles dicono che oltre il 70% delle emissioni inquinanti dal comparto trasporti proviene da aerei, camion, tir, automobili, furgoni e, in misura minore ma non certo meno rilevante, anche dagli autobus. Il restante 30% è dovuto alle movimentazioni via mare. Nessuna emissione inquinante, ovvio, per il trasporto su rotaia.

La globalizzazione ha fatto del mondo un unico, enorme mercato, una proprietà privata totalizzante, dove nulla sfugge al capitalismo liberista. La circolazione delle merci, e tutta la mobilità relativa alla forza lavoro che è impiegata nella produzione delle stesse, con tutti gli indotti che ne derivano, fa muovere ogni giorno miliardi di salariati che si spostano, per lo più, con mezzi altamente inquinanti, soprattutto nei paesi in via di sviluppo dove le auto e la stessa benzina verde stentano ancora ad arrivare.

Il ritardo spaventoso nella limitazione del danno è una colpa consapevole per tutti quei grandi magnati e tecnocrati che, a parole si mostrano interessati alle sorti del Pianeta, mentre nei fatti cercano sempre delle scappatoie burocratiche per continuare ad utilizzare le peggiori tecnologie inquinanti ma garanti di una massimizzazione dei profitti che è del tutto incompatibile con il rispetto (si fa per dire…) dell’ambiente.

Per questo, seppure formalmente le parole di Draghi, o di qualunque altro capo di governo, sono apparentemente ispirate dal buon senso, nei fatti concreti non sono seguite da intenti e volontà conseguenti.

Il passaggio alla produzione di autovetture che non utilizzeranno più la benzina come carburante è, di per sé, una ottima notizia, una rivoluzione che determinerà cambiamenti molto più evidenti di tante prese di posizione e scritture di impegni internazionalmente presi e sempre disattesi, come i protocolli di Kyoto. Ma, ai punti in cui siamo, oltre quella linea di non ritorno che forse abbiamo già oltrepassato, l’eventualità che tutto questo risulti alla fine inutile è molto alta. Eppure non c’è alternativa.

Mentre si ragiona in questi termini, occorrerebbe anche considerare il resto della vita sulla Terra e non antropocentrizzare il disastro antiecologico facendone un problema esclusivamente di rapporto tra noi e Gaia.

La minaccia dell’invivibilità e di un adattamento sempre meno fattibile, tendenzialmente rivolto ad una estinzione di massa, riguarda tutte le specie viventi per cui oggi abbiamo una considerazione veramente meschina e che, infatti, è parte del problema della sostenibilità ambientale tanto quanto il surriscaldamento dei poli e dei ghiacciai.

La produzione intensiva di carne, in particolar modo, è responsabile dell’emissione di quantitativi di gas serra che hanno soffocato l’atmosfera, facendo diminuire sempre più in questi ultimi cinquant’anni il tempo di uscita dalla crisi globale del clima. Sappiamo un po’ tutti, dalle statistiche universalmente diffuse, che la produzione di un hamburger ha un costo elevato in termini di sofferenza (la morte di un animale) e in termini di allevamento di quella sofferenza (una vita brevissima, adattata ai tempi della compulsività produttiva), nonché in termini di sfruttamento delle risorse idriche e del suolo.

Per fare un panino di carne di bovino, con le poche verdure presenti e quattro salse dentro a fare da cornice colorata di un concentrato di esaltazione di sapidità, servono più di 1.500 litri di acqua, 30 metri quadrati di terra e quasi 3 chilogrammi di anidride carbonica.

Ogni volta che consumiamo della carne, oltre ad appropriarci dell’esistenza di esseri viventi che hanno il diritto di poter stare al mondo esattamente come noi, oltre a passare coscientemente o meno sopra le vere e proprie torture cui sono sottoposti più di 60 miliardi di animali ogni anno, oltre a non considerare quanta terra serve per ottenere quel tipo di cibo, non prendiamo in considerazione nemmeno le emissioni di CO2 che si spargono per un aere sempre meno ricco di ossigeno, sempre più riscaldato e meno respirabile.

Le tragedie come quella della Marmolada sono il frutto ultimo di tutti questi comportamenti, di una economia che stritola la vita e che mette al centro soltanto il profitto. Bene ha sintetizzato il geologo Mario Tozzi quando ha spostato l’atto d’accusa dalla montagna a noi “sapiens“, gli unici, veri responsabili di quella disgrazia che, non solo potevamo prevedere, ma che potevamo evitare consci del fatto che a tremila metri di altezza qualcosa succede se per giorni e giorni la temperatura rimane stabile sui 10 gradi…

Le parole di Draghi, dunque, sono solo di circostanza perché non ci annunciano in cambio di passo nelle politiche del governo sull’ambiente. La “transizione ecologica” rivendicata dai Cinquestelle, accettata un po’ da tutto l’arco ipocrita della maggioranza di unità nazionale, somiglia sempre di più ad un compromesso al ribasso, schiavo di logiche liberiste che non consentiranno alcuna evoluzione veramente ambientalista nella politica italiana.

Da Draghi e dal suo governo, così come dagli altri governi europei e transoceanici, non possiamo aspettarci nulla in quanto a miglioramento degli standard di vita: tanto della povera gente quanto dell’ambiente sempre più insalubre in cui sono proprio quelli che hanno meno difese a subirne le maggiori ripercussioni e, sempre più spesso, a lasciarci persino la vita.

MARCO SFERINI

5 luglio 2022

foto: screenshot

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