Nel pieno della pandemia, non dimentichiamo i diritti umani

Risalendo la catena del tracciamento, quella che ormai si è interrotta con l’esplosione della seconda ondata della pandemia un po’ in tutta Europa, ci si rende conto che la...

Risalendo la catena del tracciamento, quella che ormai si è interrotta con l’esplosione della seconda ondata della pandemia un po’ in tutta Europa, ci si rende conto che la vera “invasione“, quella paventata dai sovranisti neofascisti di casa nostra, non era minacciata dalle migrazioni, bensì da un virus. Peraltro importato in Italia da qualche manager in giacca e cravatta salito in prima classe su un volo partito dalla Germania.

La storia risolverà i tanti enigmi creati ad arte per suggellare lo stretto patto tra pregiudizi e complottismo: un patto di mutuo soccorso per sostenere vicendevolmente sragionamenti al solo scopo di inquietare l’opinione pubblica, creare disagio emotivo che si somma a quello sociale e provare a destabilizzare così il consenso o il semplice assenso degli italiani verso le misure prese dal governo a partire dal febbraio scorso per fronteggiare l’epidemia.

Ce lo dirà la storia. Intanto, tocca assistere impotenti – se non fosse per l’energico lavoro che fanno le organizzazioni non governative – ad una ennesima strage di migranti nel Mediterraneo: una vera e propria tomba, un azzurro cristallino che si tinge di rosso, dove galleggiano i corpi che finiscono per disperdersi.

Una madre, su un gommone appena soccorso dalla Open Arms davanti alle coste libiche, si dispera per il suo Jospeh: lo chiama, chiede di cercarlo. Il bimbo è annegato. Forse no. Forse si dibatte ancora tra le acque gelide. Molto probabilmente senza più vita.

Ma, coronavirus o no, l’istinto di una madre, ma di qualunque essere umano che possa e debba potersi definire tale, non può ignorare quella disperazione, quella speranza che le sta intorno come alone protettivo dall’elaborazione di un lutto ormai certo. Alcuni giorni fa sono morti 90 migranti che tentavano l’approdo sulle coste italiane. Non hanno fatto in tempo nemmeno a lasciare la acque libiche: i gommoni si rovesciano e diventano trappole da cui non è possibile fuggire. Così davanti a Sabrata e Khums muoiono prima sei migranti e un bimbo di appena sei mesi, mentre il giorno successivo è una strage vera e propria.

La notizia si è fatta mestamente largo tra la bulimia di notizie sul Covid-19 e passa come una consuetudine, certo triste, come un evento che rientra nella difficile questione che riguarda le migrazioni che conosciamo, cui ci siamo vigliaccamente abituati e che, a suon di ripetersi, finiscono per non fare più notizia: nemmeno davanti all’enormità dei numeri delle vittime.

Il Covid-19 ha occupato tutta la scena dell’informazione: non c’è spazio di approfondimento radiofonico, televisivo e internettiano che non sia pregno, che non pulluli di notizie sul coronavirus. Rompono la monotematicità la notizia dell’arresto dei manager di Autostrade, dopo il disvelamento delle intercettazioni sui pannelli fonoassorbenti e le vittorie delle squadre di calcio. Ai migranti spetta una “finestra” normale, di un minuto e mezzo al massimo: un servizio che raccoglie per lo più immagini di repertorio, perché nelle zone libiche è difficile inviare qualche giornalista e le uniche riprese che arrivano sono quelle dei volontari delle Ong che pattugliano il Mediterraneo per evitare capovolgimenti di gommini e pure capovolgimenti della realtà dei fatti.

Sul finire di questo infausto 2020, sono quasi 1.000 i migranti che hanno perso la vita nel Mare Nostrum. Difficile poter avere un conteggio preciso: troppi cadaveri sono andati dispersi, visti andare alla deriva da quelle donne che sono state soccorse dai pescatori e che sono preda di stati isterici, di convulsioni e di crisi di ansia e panico provocate dallo shock nel vedere i loro cari perdersi oltre l’orizzonte, il confine ultime di un legame che si è tragicamente spezzato.

Tutti noi possiamo fare molto poco per rimediare a queste stragi, causate da una economia che aumenta le diseguaglianze oltre ogni soglia di sopportabilità e squallida sopravvivenza; causate da regimi statali, da politiche di persecuzione nei confronti di importanti minoranze che vengono vessate a causa del ruolo sociale che rivendicano, dei diritti che reclamano, per motivi religiosi, culturali, per tradizioni differenti. Ogni motivo è un alibi eccellente per chi, stando al potere, cerca di avere meno intralci possibili nel governare e nel gestire i rapporti malavitosi che detiene con grandi corporazioni internazionali che stanno facendo dell’Africa un continente da neo-colonizzare.

Un nuovo imperialismo esportato a suon di dollari e di yuan o renminbi cinesi. La guerra finanziaria e commerciale è in atto: profitta di qualunque occasione per espandere il dominio di questo o quel polo capitalistico sul resto del mondo. Il risiko tra le nazioni è tutto da giocare sulla pelle della povera gente, dei due miliardi e mezzo di salariati che vi sono al mondo, sulla pelle dei migranti che sono estromessi dai giochi del mercato del lavoro, dello sfruttamento, del moderno schiavismo.

Se è vero che possiamo fare ben poco, senza una riorganizzazione internazionale degli sfruttati che apra conflitti sociali tali da mettere in crisi le certezze delle potenze capitalistiche, liberiste, liberal-democratiche, è altrettanto vero che possiamo evitare di scimmiottare telegiornali, reti televisive e grandi giornali internettiani, che relegano le notizie extra-coronavirus nelle “brevi dal mondo“. Possiamo scriverne: sui social, contrastando tutte le insopportabili falsità della retorica disumana dei sovranisti sui migranti, sulle ragioni delle migrazioni, così come possiamo denunciare, ogni volta che è possibile, qualunque tentativo riduzionista: del dolore di chi fugge, di chi annega, di chi si salva e spera in una vita decente per aiutare i propri cari in Africa, in Medio Oriente o in Asia.

Possiamo lottare contro ogni riduzionismo, soprattutto quello che vuole sminuire gli effetti della pandemia ma che è pronto ad utilizzarla per – a sua volta – ridurre l’impatto di altri problemi sociali da scala globale a mera consuetudine quotidiana. Priva di importanza, consegnabile all’irrilevanza.

Possiamo quindi assumerci una responsabilità morale e civile in questo senso, diventare noi megafono di voci che verrebbero altrimenti soffocate dall’emergenza sanitaria in corso, dal cannibalismo di notizie che i cosiddetti mass media mostrano e dimostrano come lato nascosto (ma poi nemmeno tanto) di una deontologia che varia a seconda della convenienza che la notizia mostra di avere.

Per 90 giornalisti che fanno correttamente il loro dovere, che informano senza badare alle fluttuazioni degli ascolti o alle tirature della carta stampata, ve ne sono sempre 10 che approfittano del potere della comunicazione e che, mentre il virus avanza prepotentemente, continuano a vedere l’invasione dei migranti piuttosto che quella della pandemia dentro cui ci troviamo e di cui si annuncia già una terza ondata. A febbraio.

La libertà civile, rappresentata anche (e soprattutto) dal diritto di informazione, di denuncia attraverso spesso coraggiose inchieste, non può essere inficiata da una esigua minoranza di mistificatori che rovesciano la verità dei fatti e provano a farsi promotori del più becero nazionalismo sovranista.

La difesa di una informazione corretta tocca, come vigilanza repubblicana sul rispetto dei diritti umani, ad ognuno di noi: leggere, conoscere, sapere non è un mero esercizio di acquisizione di notizie. Deve diventare un primo approccio verso un impegno civile e sociale di più ampia portata, una rialfabetizzazione democratica che si nutre dei cardini costituzionali che poggiano sulla espansione massima della solidarietà come fondamento del Paese.

Ci troviamo in un autunno invernale molto lungo, triste, cupo, che preannuncia un inverno per niente primaverile. Per questo non dimentichiamoci di nessuna e di nessuno. Di noi stessi e di tutti, proprio tutti gli altri.

MARCO SFERINI

13 novembre 2020

foto tratta dalla pagina Facebook di Open Arms

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