La risposta delle destre al disagio giovanile è sempre quella sbagliata

Ci sono molti modi per armare la mano di un ragazzo, per farlo diventare un potenziale assassino, stupratore, distruttore di sé stesso e delle vite degli altri. Sono davvero...

Ci sono molti modi per armare la mano di un ragazzo, per farlo diventare un potenziale assassino, stupratore, distruttore di sé stesso e delle vite degli altri.

Sono davvero tanti i modi con cui si può indurre un giovanissimo ad essere, nel giro di pochissimo tempo, una ordigno esplosivo, detonante di tutta quella decadenza antisociale, incivile e immorale che è il prodotto della comunità in cui si trova a vivere e anche a morire.

A morire lentamente, come scriveva Neruda. A morire di stenti fin dentro gli anfratti più reconditi di una personalità che non cresce, che si nutre soltanto di miti e di sensazionalismi, di emulazioni di esempi che sono, per la maggior parte, eroi negativi, ma comunque eroi. La maggior parte dei programmi televisivi è composta da telefilm che fanno della violenza e della sopraffazione un connotato esplicito della giustizia.

Dai rangers texani fino alla legge e all’ordine di serie americane che, se prese con le dovute precauzioni e tutta la consapevolezza del piano critico da riservare ad un programma televisivo, allora sono anche godibili, sebbene piuttosto angoscianti; ma se questa maturità è pressoché assente nel giovane, se i suoi modelli di riferimento sono genitori che non ne seguono i passi, non mettono dei limiti agli eventuali eccessi, non correggono quelli che sono i veri errori.

Ed i veri errori, quindi le prepotenze, il bullismo, tutti gli atti volti a richiamare su sé stessi l’attenzione per un disagio che si soffre, sono tanto più macroscopici quanto più sottovalutati e minimizzati il più delle volte dagli stessi nuclei familiari che patiscono il dover ammettere le proprie insufficienze, tutte quelle lacune pregresse che poi finiscono per contribuire alla generazione di una alienazione che per il ragazzo o la ragazza sono veramente una sofferenza.

Da sfogare sugli altri. Esattamente come gli istinti sessuali che sono il mezzo attraverso cui mostrarsi degni di stare in un mondo che fa del maschilismo e del dominio dell’uomo nella vita quotidiana l’elemento cardine su cui impostare un’esistenza altrimenti incomprensibile anche sul piano del genere.

Si è uomini solo se si è maschi e si è maschi solo se si fa sfoggio della caratteristica primordiale di questa mascolinità: l’organo sessuale che, nell’atto della penetrazione, diventa la protesi di un godimento che oltrepassa il desiderio e diviene soltanto uno strumento della prevaricazione.

Magari fossero soltanto i telefilm e la ripetitività meccanica della pornografia ad innescare questa istintualità che, con troppa semplificazione, attribuirebbe all’animalismo separato dall’umanismo la sua origine quasi primitiveggiante.

Non basta guardare le serie televisive per diventare un fanatico delle armi e del pestaggio gratuito; così come non è sufficiente praticare l’onanismo compulsivo per poi sfogarsi in una assolutamente impossibile correlazione con lo stupro e, per lo più di gruppo.

Occorrono una serie di fattori concomitanti, una intersezione di dinamiche che, però, nell’incontrarsi mostrano di per sé una attitudine al simile, un essere convergenti entro una società che non le scongiura ma che le rende ancora più diabolicamente efficienti.

La repressione governativa, quella che vorrebbe provare a risolvere tutti questi enormi danni fatti a generazioni di giovani che sono senza prospettive e il cui terreno manca sotto i piedi, non farà altro se non proporre al proprio elettorato rabbioso, infuriato e da sempre amico del divieto come forma di risposta collettiva al problema del momento, una falsa uscita. Ma sufficiente ad illudere che qualcuno quei problemi li sta affrontando.

L’altro giorno, per arrestare poche persone, sono stati impiegati oltre quattrocento agenti di polizia, in tenuta antisommossa.

Il tutto ripreso dalle telecamere della RAI, spedito su tutti i telegiornali in prima, seconda e terza serata per far vedere la prontezza del governo Meloni nello stroncare alla radice la criminalità minorile dopo i fatti di Caivano. Poche ore dopo il ministro delle infrastrutture, oltrepassando persino le norme del Codice Rocco, si prodigava nel dichiarare, apertis verbis, che un quattordicenne che stupra, uccide e commette crimini simili va trattato come un cinquantenne.

La proposta della Lega di abbassare la soglia della responsabilità penale dai quattordici ai dodici anni, poi, è una anticipazione di un nuovo capitolo di regressione anticulturale non solo giuridica, ma letteralmente antropologico, che innesca quel cortocircuito di repressione da cui non si esce.

Sono proprio atteggiamenti e idee come queste che hanno impedito di affrontare per lungo tempo il disagio giovanile come un problema da risolvere insieme e, invece, lo hanno ricondotto alla matrice dell’emergenza securitaria da risolvere con la decretazione d’urgenza.

Le proposte di Salvini sono talmente oscene e antidemocratiche da essere persino messe da parte dalla sua maggioranza che intende, comunque, produrre un pacchetto di norme propagandistiche e non comprensive dello stato di alterazione individuale che molti giovani subiscono attraverso il missaggio di elementi così diversi di culture che, nell’incontro-scontro che si verifica, finiscono col dare vita ad un disequilibrio prima di tutto sociale e, quindi, anche culturale.

L’elemento strutturale, quello economico, va considerato come il fulcro di una trasformazione continua di comportamenti comuni e singoli che sono l’espressione diretta della sopravvivenza cui è costretta larga parte della popolazione.

Il disagio psicofisico delle nuove generazioni è intrinsecamente un derivato del prodotto di un liberismo spietato che ha falcidiato le certezze delle famiglie, di intere comunità, privilegiando i centri di ogni cosa: della finanza, della politica, della cultura, delle città.

Lasciando le periferie proprio al loro destino etimologicamente dato: fare da cintura ad un mondo di privilegiati. Essere il margine di una società che, con il progressivo esaurimento della spinta sociale degli anni del boom economico e della costruzione farraginosa di una democrazia sempre in pericolo, si è sbilanciata tra ricchezza e povertà, acuendo le distanze, separando invece che unendo, ghettizzando piuttosto che valorizzando le differenze.

Un governo come quello di Giorgia Meloni altro non può fare, data la sua impronta ideologico-politico-programmatica, se non ricorrere alla forza, alla cruenza delle norme messe lì come sentinelle a guardia di un territorio che ha bisogno di tutto tranne che di risposte del genere. L’unico falso pregio che hanno è quello della dimostrazione di una efficienza e di una prontezza di risposta che non eradica i veri drammi che sono nelle fondamenta di quartieri e interi comuni da troppo, lungo tempo.

Una riforma della scuola pubblica improntata sulla maggiore spesa per qualunque tipo di esigenza degli istituti, degli studenti, del personale ATA e del corpo docente, questa sì che sarebbe una grande risposta al problema del disagio giovanile che, a ben vedere, non si riversa solamente in episodi di carattere criminale ma mostra il suo volto davvero più allarmante nell’oltre 40% di ragazze e ragazzi affetti da un disagio psichico.

Ansia, crisi di panico, fobie, disturbi dell’alimentazione, depressioni sono tratti tristemente comuni oggi. Questo tipo di sintomatologie sono, spesso, l’apice di un substrato dell’inconscio che fa emergere una serie di turbamenti interiori sedimentatisi non solo dall’infanzia, ma in particolare nel periodo adolescenziale.

Stabilire una gravità dei casi è sempre un esercizio difficile e forse anche inutile da fare, se non per comprendere quanto è profondo quel solco che si è stabilito tra la ragazza che ha subito violenza dal singolo o dal gruppo e il resto di un mondo che deve apparirle orribile.

Recuperare un po’ di fiducia nella società, che ha allevato questi giovani privi di qualunque empatia in quei momenti di sfogo brutale delle loro istintività più coltivate da una frustrazione crescente, sarà l’impresa più complicata per queste ragazze brutalizzate dai loro simili. Che, poi, simili a loro proprio non sono.

Il maschio si permette tutto perché gli viene insegnato dalla tradizione, da millenni di Storia e da una collettività compiacente con battute, sorrisetti e complicità ovvie, che è lui a dirigere il gioco della vita e che, nonostante le lotte per i diritti delle donne abbiano conseguito notevoli progressi, tanto da portare una donna alla Presidenza del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, non esiste mai una garanzia assoluta sull’irreversibilità di queste stesse conquiste civili.

Dovremmo essere capaci di astrarre per un momento il maschio dall’uomo, farne l’elemento di indagine e cercare di capire quanto l’uomo influisce sul maschio e quanto quest’ultimo influisce sull’uomo in quanto essere individuale e cittadino nella socialità collettiva.

Quella che è certa è tutta l’inadeguatezza del governo delle destre nell’affrontare temi di questa natura che, guardando alla crescita e alla nascita della presunta modernità del conservatorismo reazionario di forze come Fratelli d’Italia, la Lega e affini, provengono da una esaltazione della meritocrazia spinta all’eccesso, all’ennesima potenza, oltre ogni immaginabile limite.

Per scardinare questo egoismo strisciante e seducente, per prima cosa bisogna depotenziare, smitizzandola, la competizione come caratteristica del progresso odierno e dell’emancipazione personale. Il “farsi largo” tra gli altri è proprio uno dei peggiori concetti che l’ideologia del mercato ha portato con sé nella sua declinazione liberista. Va rovesciato tutto questo e ripristinata la cultura della condivisione, della comunità, della solidarietà e del mutualismo.

Non siamo in una gara permanente in cui chi non arriva primo è automaticamente retrocesso ad un livello di cittadinanza di serie B. Eppure gli effetti della crisi economica producono questa narrazione e alimentano questi retropensieri e incertezze sul futuro.

Diventare famosi attraverso i social, adorarsi e farsi adorare a colpi di likes; arrivare al successo non per le proprie qualità psicofisiche, per le peculiarità del proprio cervello, ma per i muscoli, per le belle gambe, per la facilità dei premi che si hanno in cambio: un guadagno facile? Per alcuni influencer, ma non per tutto.

Sembra un po’ la storia dei genitori che spingono i figli a giocare a calcio a tutti i costi, anche quando rivelano la loro idiosincrasia nei confronti del pallone. La condizione economica disperata conduce a comportamenti estremi, a scelte sbagliate, a tentativi di sopravvivenza che vengono giocati come si fa con un gratta e vinci.

Dietro a tutto questo manca una politica sociale, di giustizia sociale. Manca una sicurezza vera: quella del salario e della pensione adeguati al costo della vita. Mancano tante, troppe sicurezze sul posto di lavoro. Mancano diritti che dovrebbero essere il cardine del rapporto tra chi presta la propria forza e il proprio intelletto e chi la acquisisce per farvi profitti su profitti.

Manca un ritorno al pubblico nei settori strategici di una economia che, oggi, è impossibile classificare come “statale“. Cosa c’è oggi di statale nei gangli delle principali reti produttive in Italia? La via delle privatizzazioni è quella seguita dai governi precedenti e da quello attuale.

I pochi, singoli, esempi di considerazione della povertà sociale come povertà comune, come problema di tutte e tutti, si contano su meno delle dita di una mano. Il reddito di cittadinanza era uno di questi esempi. Sappiamo la fine che ha fatto…

MARCO SFERINI

7 settembre 2023

foto tratta da Pexels

categorie
Marco Sferini

altri articoli