Il fallimento dei padroni nascosto dall’alibi della pandemia

Hanno ragione gli inglesi (o per meglio dire, Boris Johnson) a riaprire tutto e a giocare semifinali e finale di Euro 2020 (ossia 2021) a stadi ricolmi fino all’ultimo...

Hanno ragione gli inglesi (o per meglio dire, Boris Johnson) a riaprire tutto e a giocare semifinali e finale di Euro 2020 (ossia 2021) a stadi ricolmi fino all’ultimo posto, oppure hanno ragione i giapponesi ad affrontare le Olimpiadi dell’epoca Covid a stadi praticamente deserti?

Nessuno lo sa, ma pare di dover intuire, almeno dalla timida risalita dei contagi e dai focolai che scoppiano qua e là tra i giovani, che stia un po’ nell’ordine delle cose la crescita dell’indice RT e che questo luglio sarà una sorta di “mese di prova” per verificare se la barriera vaccinale terrà, se le precauzioni saranno sufficienti, se la variante Delta ci permetterà di tenere a portata di mano la mascherina senza doverla per forza indossare sempre e comunque anche all’aperto.

Per gli ipocondriaci come il sottoscritto, probabilmente i disagi sono minori di quelli che ti aspetti. Meglio tenersi ben stretta al viso la FFP2 piuttosto che rischiare, con mezza dose di vaccino Pfizer, di beccarsi il coronavirus: anche se – certifica l’Istituto Superiore di Sanità – già con la prima somministrazione è quasi del tutto escluso che la malattia ci trascini in ospedale. Scongiuri e grattatina propiziatoria. Come diceva mia nonna: «Se non fanno bene, non possono fare nemmeno male». Non ho mai pensato, a dire il vero, che la mancanza di bene volesse meccanicisticamente dire che era assente anche il male. Ma tant’è, la cosiddetta “saggezza popolare” te la vuoi fare nemica? E accarezziamoci pure i talismani, ma poi però occorre mantenere quel tanto di prudenza che ci cauteli reciprocamente e ci preservi dal contagio.

In queste settimane di rilassamento estivo, con il precipitare della curva dei contagiati e, soprattutto, con la chiusura di tantissimi reparti Covid negli ospedali di tutta Italia, è ovvio, naturale ed anche giusto che la concentrazione di tutte e tutti noi, per primi i mezzi di informazione, si sia posata su temi di normale trastullo: dalla crisi dei Cinquestelle alla riforma della giustizia firmata da Marta Cartabia; dal mese calcistico alla morte troppo repentina di Raffaella Carrà.

Ci siamo potuti permettere di parlare di altro, di liberare la mente dall’ossessione (chi più, chi meno) del Covid-19, uscendo da un “Truman show” del pensiero unico della pandemia come complicatore della vita che consideravamo impropriamente “normale” e che, obbligatoriamente, siamo stati costretti a pensare come tale ancora una volta. Per sopportare la realtà claustrofobica in cui ci ha precipitato il virus, abbiamo fatto a pugni con la verità, raccontandoci ennesimamente che la vita prima del 21 febbraio 2020, quando scoprimmo il “paziente zero“, era meravigliosa perché era fatta di abbracci, baci, carezze, contatti fisici, sociali cui toccava rinunciare.

A distanza di un anno e mezzo è difficile calcolare il portato psicologico di questo evento non ancora terminato. L’immedesimazione in cui noi umani, esseri assolutamente abitudinari, siamo stati inseriti dalle circostanze, dalla incontrastabile diffusione del Covid-19, dall’impreparazione scientifica ma, più di tutto, politico-organizzativa di una sanità pubblica letteralmente allo sbando, è un dato tutto da verificare.

Proprio perché ci adattiamo ai processi nuovi, volenti o nolenti, il tipo di resistenza alla mutazione dei nostri ritmi di vita è un aspetto che solo gli studi degli scienziati del futuro potranno svelare pienamente e consegnare alle valutazione di tutta la comunità medica mondiale.

L’impatto sociale, invece, lo abbiamo sotto gli occhi ed è terribile. L’immagine dell’arcobaleno con sopra scritto: “Andrà tutto bene” è svanita presto, perché i tempi si sono allungati, il disagio è cresciuto e ha investito tutte le categorie del mondo del lavoro, esponenzializzando le percentuali di un pauperismo già diffuso e per niente contrastato da una politica di governo che proveniva dalla lotta all’umanità e alla solidarietà, contro migranti, contro tutte le differenze, fondata sui culti e provando la marginalizzazione di ciò che non fosse di carattere prettamente patriottico, cristiano e di pura origine italica.

L’attualità dell’oggi ci trova altrettanto impreparati, nonostante la campagna vaccinale, nonostante la militarizzazione organizzativa che – pare – dovrebbe essere una garanzia a prescindere dell’efficienza che manca alla politica laica, democratica e civile in materia di gestione di eventi unici nel corso di una vita (e di secoli di storia) come le pandemie.

422 licenziamenti alla GKN di Firenze, mandati con una semplice mail, sono liquidati dal presidente dei padroni come una esigenza naturale delle imprese dopo le traversie dell’ultimo anno e mezzo. Bonomi rimbrotta i giornalisti che osano stigmatizzare il metodo della multinazionale inglese: si possono mettere sul lastrico centinaia di famiglie scrivendo loro una PEC formale, senza nemmeno spiegare a voce i motivi del fine rapporto di lavoro?

Evidentemente sì, perché i capitalisti così interpretano anche quei rapporti tra le parti che sono regolati da norme che prevedono comunque un confronto prima dell’esclusione del lavoratore dall’azienda. Qualunque sia la motivazione. Si entra nel campo dei torti economici che verrebbero ascritti esclusivamente alla pandemia, cercando di minimizzare il rischio di impresa ascrivibile alle speculazioni finanziarie, ai tentativi di stare sul mercato oltre le proprie possibilità, facendo pagare qualunque costo alle maestranze e provando a mantenere intatto il livello dei profitti: delocalizzando, portando la produzione dove oggi – proprio grazie alla pandemia – il costo del lavoro si è notevolmente abbassato.

Un copione tipico del capitalismo di sempre, ancora più del moderno liberismo. La reazione della FIOM, non lascia, caso mai ve ne fossero, spazio a dubbi: «Una scelta criminale di una multinazionale che conferma ancora una volta, se c’è ne fosse bisogno, che i datori di lavoro vogliono che il costo di questa crisi ricada sulle persone che per vivere devono lavorare». Una sintesi efficace di quella lotta di classe che si vorrebbe occultare oggi dietro i veli impietosi della pandemia, mentre prima del 21 febbraio 2020 se ne tentava l’oscuramento mediante la magnificazione del libero mercato, della precarietà come efficienza per le imprese, come possibilità per i lavoratori di essere “flessibili” oltre ogni più straordinaria aspettativa.

Non è andato tutto bene, non andrà tutto bene. Anzi, di male in peggio. Perché ai danni si uniscono anche le beffe: poco prima di licenziare i 422 suoi operai, la GKN aveva concesso loro il PAR (“Permesso annuo retribuito“) per potere fare le ferie estive e nel sito produttivo non c’era praticamente nessuno. Una chiusura dell’impianto studiata ad arte, per tentare di evitare proteste, occupazioni, picchettaggi, approfittando di ogni cavillo normativo, di ogni libertà che la legge concede, pur da altri punti di vista e presupposti.

La crisi pandemica potrà anche finire un giorno sul piano sanitario: e sarebbe una gran bella notizia. Ma resteranno tutti gli strascichi di una società malata, decomposta, priva di tutele sociali, in balia dei movimenti borsistici e delle ispirazioni bancario-finanziarie dell’Unione Europea istillate ai solerti guardiani nazionali: i governi dediti a fare a gara per assicurarsi i favori di Francoforte e Bruxelles, mantenere a galla una classe dirigente protesa quasi esclusivamente a mantenere i privilegi di pochi, in barba ad ogni riferimento a quella giustizia sociale che è, come la libertà in generale, uno dei concetti più usati e abusati e, quindi, svuotati di un reale, concreto, vero significato per chi ne avrebbe più bisogno.

MARCO SFERINI

10 luglio 2021

foto: screenshot

categorie
Marco Sferini

altri articoli