La strage dei giorni scorsi a Crotone è soltanto l’anello più recente di una lunga catena di storie di profughi iniziata, per l’Italia, nel 1991 con l’arrivo a Bari della nave Vlora con a bordo 20mila disperati cui fa seguito nel 1997 l’affondamento della Kater I Rades, con 120 persone a bordo – in fuga dalla guerra civile in Albania – da parte della corvetta Sibilla della nostra Marina Militare.

E che dire della prescrizione – vuol dire nessun colpevole, reati estinti e sostanziale dimenticanza – decisa dal Tribunale di Roma solo nel dicembre 2022 della «strage dei bambini» dell’11 ottobre 2013, quando un barcone partito dalla Libia con 400 persone a bordo affondava in acque rientranti nella zona SAR maltese, ma a poche miglia da Lampedusa? Morirono 268 persone, in prevalenza siriani in fuga dalla guerra, di cui 60 bambini. Fece tanto scalpore ma ora è solo oblio.

E’ il controcanto che da allora accompagna gli inni guerreschi di quello che Bush senior definiva nuovo ordine mondiale: un mondo unipolare in cui l’iperpotenza sopravvissuta alla Guerra Fredda, con il crescente numero di satelliti che le ruotano intorno, riesce a imporre i propri interessi geostrategici, finanziari ed economici sul resto del mondo.

Un Occidente trionfante che potremmo rappresentarci come un’aquila a tre teste – semplificando con la classica iconografia imperiale -, con al centro gli Stati uniti e ai lati la Nato e la Ue, artigli capaci di colpire dovunque o quasi, stomaco dalla voracità insaziabile, e, in cauda, testa di ponte in Medio Oriente, Israele, dove il popolo dei campi profughi, i palestinesi, è stato cancellato dalla memoria della comunità internazionale. Un Occidente che ora riceve una risposta altrettanto aggressiva, armata e neo-imperiale da parte della Russia di Putin.

La guerra, praticabile e praticata, anche da parte di quegli Stati la cui Costituzione la ripudia, ne è lo strumento principe, ma non certo l’unico: l’ingerenza nei sistemi politici, la corruzione e il finanziamento di qualunque forma di governo, purché a «noi» favorevole, il saccheggio delle risorse dei Paesi che non sono in grado di difendere la propria sovranità, specie quelle energetiche, la deforestazione, le crisi ambientali, la creazione di movimenti armati, lo scatenamento di guerre civili e ribaltamenti riservati a chi vi si oppone, sono esempi della vasta gamma di interventi possibili.

Come se, superata la fase storica della decolonizzazione, con un prodigioso rimontar della corrente fossimo approdati ad un neocolonialismo mondiale, che chiamiamo globalizzazione.

Con un Occidente, area di spreco e privilegio, in cui l’opinione pubblica, quotidianamente sommersa da valanghe di informazioni disinformanti, riesce a non vedere il caos e la desolazione che sempre più da vicino l’assediano: contemporaneamente flagellati da pandemia e crisi economica, crisi climatica e guerra, riusciamo a pensare di cavarcela col nostro benessere.

E i dannati della Terra, che da noi cercano la salvezza, sono l’altra faccia della globalizzazione, quella nascosta, di cui l’Occidente opulento rifiuta di responsabilizzarsi. Anzi, proiettandovi la propria aggressività, li vive e descrive come minaccia esterna alla propria sicurezza ed ha facile gioco a mobilitare contro di essi le opinioni pubbliche, anche a costo di risvegliare i demoni del razzismo che credevamo sconfitti fin dalla II Guerra Mondiale.

Nulla viene tralasciato al fine di arginare un fenomeno che non potrà smettere, finché il mondo occidentale continuerà a trasformare in profitto le risorse naturali, umane e ambientali, a rischio di trascinare nell’autodistruzione l’umanità e il Pianeta.

Nulla si risparmia come deterrente: la costruzione di mura, l’esternalizzazione delle frontiere grazie ad accordi con Paesi non democratici, che a cambio di sostegno finanziario, politico e tecnologico, si prestano al lavoro sporco del respingimento, un sistema di campi di concentramento a macchia di leopardo, dove i migranti sono oggetto di tortura, violenza sessuale ed esecuzioni, lavoro forzato e vera e propria schiavitù, l’uso delle forze armate di Paesi terzi e l’omissione di soccorso quando i migranti riescono comunque ad avvicinarsi ai confini e rischiano di varcarli.

La partecipazione e l’indignazione alle manifestazioni di sabato 4 marzo a Firenze e a Milano ci dicono tuttavia che siamo in molti a percepire che la nota dolente dell’immigrazione ha superato il limite dell’intollerabilità del diritto ingiusto, come diceva il giurista tedesco Radbruch, oltre il quale la magistratura si trova a non poter applicare le norme dell’orrore «goyesco» che un sistema politico può produrre.

Che esiste spazio per una resistenza non violenta, espressione di un’etica politica capace di crescere fino a strappare i paraocchi alla miriade di palline da flipper cui le nostre società, un tempo solidali, sono ridotte.

Ci dicono che il diritto è l’arma della civiltà e che arriverà il momento in cui forse un giudice all’Aja troverà il coraggio di togliere l’impunità su cui fa affidamento il neoliberismo atlantista delle classi dirigenti che si alternano al potere in Italia e in Europa.

ENRICO CALAMAI

da il manifesto.it

foto: screenshot opera di Banksy a Calais, tratta da You Tube