I tempi per accedere alle prestazioni sanitarie, non solo a quelle più complesse, sono decisamente sconfortanti, una catastrofe che non risparmia nemmeno le Regioni più ricche e meglio organizzate. Il governo annuncia l’ennesimo piano di battaglia e nell’incerta attesa dell’improbabile rilancio di un settore pubblico impoverito ed estenuato, si rivolge alle strutture private.

È però davvero l’espansione dell’offerta la soluzione del problema e davvero sono i tempi di attesa il problema principale del sistema sanitario?

Aspettare è in realtà una dimensione tipica della malattia e della cura, si ascoltano i segnali inviati dal corpo, si aspettano, con impazienza o con trepidazione, il parere di un medico o la risposta di un esame, si lascia passare il tempo, si attraversano giornate monotone nell’attesa di guarire, di tornare insomma ad essere quello che si era prima. L’attesa appare talmente connaturata alla malattia che i malati si chiamano «pazienti», persone dunque che non solo soffrono ma aspettano, che sono rassegnate ad aspettare e per le quali la malattia non è solo un’interruzione, ma anche un momento di conoscenza, un addestramento severo all’esistenza.

Con la rivoluzione produttivista che ha coinvolto la sanità europea a partire dagli anni Ottanta e che è arrivata in Italia nei primi anni Novanta del Novecento, non c’è dubbio però che l’attesa abbia assunto una connotazione esclusivamente negativa e che si configuri un inedito intreccio tra attesa, efficienza e qualità dei servizi.

La riduzione di liste e tempi di attesa diventa la misura principe del buon funzionamento di un sistema sanitario, sale nella lista di priorità della politica e delle nuove figure manageriali cui è affidata la gestione di una sanità aziendalizzata, sconfina nel senso comune e si propone come simbolo di una trasparenza che consente al singolo cittadino di scegliere e entrare, direttamente e individualmente, in una sanità di mercato.

La prestazione sanitaria, indipendentemente dalla sua persistente funzione assistenziale, sembra diventare oggetto di uno scambio che la trasforma in un prodotto autonomo al quale accedere in tempi rapidi, un fine in sé su cui valutare anche l’equità del sistema indipendentemente dal suo impatto sulla salute e sulla cura. I tempi d’attesa sono però un metro difettoso che nasconde talvolta i problemi invece di rivelarli o suggerisce spiegazioni fuorvianti a problemi reali.

Per fare un esempio banale, un paziente diabetico avrebbe bisogno di una dieta adeguata, di accertamenti semplici e periodici, di un controllo assiduo della terapia. Quasi la metà dei pazienti diabetici non effettuano però molti degli esami indispensabili non perché siano complessi e costosi ma perché non li richiedono e non vengono loro prescritti.

Il loro bisogno non si traduce dunque in domanda, l’offerta disponibile rimane largamente inutilizzata, non si allungano liste o tempi di attesa, ma il bisogno rimane insoddisfatto. Per altro verso la gestione di un dolore cronico del ginocchio è un problema di salute comune a circa il 30% della popolazione di età superiore a 40 anni, e dovrebbe essere affrontato, nella larghissima maggioranza dei casi, combinando un’attenta valutazione clinica con l’esercizio fisico e con l’addestramento del paziente a comportamenti in grado di contenere i sintomi.

Nella realtà però il bisogno di cura non si esprime nella sola richiesta di questi interventi, che le evidenze scientifiche indicano come adeguati, ma si traduce spesso nella domanda di una risonanza magnetica del ginocchio con tempi di attesa che nel Ssn Italiano oscillano da molte settimane ad alcuni mesi e che spingono molti pazienti a cercare una risposta nella sanità privata sostenendone direttamente i costi.

Nel primo caso la debolezza della domanda e l’assenza di liste di attesa mascherano la mancata soddisfazione del bisogno, nel secondo una domanda di rado appropriata genera tempi di attesa, distorce l’offerta e apre ampi spazi al settore privato aumentando le disuguaglianze anche quando l’accesso ai servizi si riveli scarsamente giustificato e contribuisca marginalmente alla soddisfazione del bisogno.

Questi esempi estremi mettono in luce i difetti di un’utilizzazione dei tempi di attesa come metro del funzionamento di un sistema sanitario, ma sottolineano anche la differenza tra bisogno e domanda e gli squilibri che questo scarto può creare nella destinazione delle risorse disponibili, sia pubbliche che private, orientandole verso interventi più richiesti ma relativamente inappropriati o non corrispondenti alla gerarchia dei bisogni.

Quello che servirebbe allora è la valutazione di un prodotto che corrisponda all’efficacia dell’intervento. Il tempo è solo una delle variabili che descrivono le risorse necessarie a realizzarlo, un tempo che non comprende solo l’attesa di un esame o del suo risultato ma anche le relazioni che sono parte integrante del percorso di cura.

Le risposte devono essere tempestive ma è un errore pensare che un singolo accertamento rappresenti una risposta finale come se la salute potesse essere considerata merce in vendita su uno scaffale e non avesse inevitabilmente a che fare con la dimensione personale ed esistenziale degli individui. L’assenza di questa dimensione assimila il paziente ad un consumatore e configura l’attesa come uno spazio vuoto che deve essere eliminato e che non può essere usato o condiviso.

Un sistema sanitario che funzioni non è dunque quello che si limita ad accelerare la effettuazione di interventi e procedure, ma quello che affronta i problemi e trova le soluzioni e che gestisce insieme ai pazienti i tempi del trattamento, un sistema che misura la sua equità sui tempi e la qualità dei suoi percorsi di cura e sui loro esiti di salute.

CARLO SAITTO

da il manifesto.it

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