La maggioranza è divisa sulla legge elettorale che dovrà supportare il premierato elettivo, e tuttavia non intende sciogliere il nodo. È quanto emerso in Senato dove la Commissione Affari costituzionali sta esaminando gli emendamenti al ddl Casellati sul premierato. Ma forse non è questa la notizia del giorno. Il fatto più rilevante è che la maggioranza sta per approvare una riforma costituzionale che in un punto essenziale «ha due interpretazioni diverse», come ha sorprendentemente affermato in Commissione il relatore e presidente Alberto Balboni (Fdi). Andiamo alla cronaca.

Dopo l’approvazione martedì dell’articolo 3 del ddl Casellati – quello con l’elezione diretta del Presidente del Consiglio – la Commissione ha ieri iniziato l’esame degli emendamenti all’articolo 4 che regolamenta i casi di crisi di governo, contraddicendo tuttavia l’articolo precedente. Infatti, ogni elezione diretta di un organo monocratico (il sindaco, il Presidente della Regione, il Presidente della Repubblica in Francia…) vorrebbe che in caso di caduta di tale organo si procedesse a una nuova elezione. Ma il ddl Casellati dispone diversamente. Se il Presidente del consiglio viene sfiduciato con una «mozione di sfiducia motivata», le Camere vengono sciolte.

Se invece egli presenta «dimissioni volontarie» al Capo dello Stato, può o chiedere lo scioglimento delle Camere oppure chiedere un nuovo incarico sorretto da una maggioranza anche diversa da quella che lo ha appoggiato nelle urne, oppure può passare la mano a un altro esponente della sua maggioranza, anch’egli senza vincoli sulla maggioranza parlamentare che lo sostiene. Insomma «un pasticcio» ha esclamato Peppe De Cristoforo di Avs che, pur dichiarandosi contrario all’elezione diretta del premier, ha esclamato: «Piuttosto che questo pasticcio fate una norma secca sul presidenzialismo!».

Non è finita qui. Dario Parrini del Pd ha osservato che non c’è scritto nulla sul caso più frequente: la mancata fiducia posta su un atto dal governo (i due casi su cui sono caduti i due governi Prodi nel 1998 e nel 2008 o il governo Draghi nel 2022). In questo caso, ha osservato l’esponente dem, si tratterebbe di dimissioni obbligatorie, «come hanno sottolineato numerosi costituzionalisti».

E qui arriva il colpo di scena: Balboni ha affermato serenamente che il testo ha «due interpretazioni diverse», dato che lui stesso ha sentito altri costituzionalisti (Francesco Saverio Marini e Felice Giuffrè) sostenere che si tratterebbe comunque di dimissioni volontarie. Bene, ha insistito Parrini perfidamente, presentate un emendamento ed esplicitatelo. Ma questo non si può fare perché la formula scelta è un delicato compromesso, come ha evidenziato anche De Cristofaro, tra Fdi che vorrebbe il simul stabunt, simul cadent e la Lega, che invece vuole la possibilità di un cambio in corsa del premier.

Insomma è quell’aggettivo «volontarie» che divide Fdi e Lega a essere il nodo, ma che non verrà sciolto portandoci in una dimensione fantascientifica del costituzionalismo. Non viene sciolto nemmeno un secondo nodo, non meno rilevante, quello sulla legge elettorale. Martedì Balboni, incalzato dalle opposizioni, ha ammesso che l’attribuzione di un premio di maggioranza – previsto dall’articolo 3 del ddl Casellati – implica che il candidato premier superi una determinata soglia e che, se tale asticella non viene raggiunta, si dovrà andare al ballottaggio. Ieri il capogruppo della Lega in Senato, Romeo, e il forzista Cattaneo hanno detto che a loro il ballottaggio non piace. Parole analoghe erano state pronunciate da Adriano Paroli, vice di Gasparri in Senato.

Un chiarimento è stato quindi chiesto ieri in Commissione e Balboni ha insistito sulla necessità del ballottaggio «per coerenza» con il premierato elettivo. In effetti se si parla di premio di maggioranza è implicita l’idea di una soglia. «Prendetevi 10 giorni e decidete, ma dateci un’idea», ha detto Parrini. Tirata in ballo, la ministra Casellati si è trincerata dietro la solita risposta: la legge elettorale la renderò nota solo dopo la prima lettura del premierato da parte di Camera e Senato. In conclusione una riforma costituzionale interpretabile in almeno due modi e approvata giocando a nascondino.

KASPAR HAUSER

da il manifesto.it

foto: screenshot ed elaborazione propria