Declino e caduta dell’Impero Romano

A Dero Ames Saunders dovremmo fare un monumento. Magari non proprio nell’antica Roma di cui si è occupato, tra l’altro, nel corso dei suoi studi classici infilati dentro il...

A Dero Ames Saunders dovremmo fare un monumento. Magari non proprio nell’antica Roma di cui si è occupato, tra l’altro, nel corso dei suoi studi classici infilati dentro il lungo corso di giornalista e tante altre passioni, come quella per la musica classica.

Dovremmo farglielo, sì, questo monumento, perché grazie a lui migliaia e migliaia di persone, di studenti e anche di insegnanti hanno potuto leggere una summa dei sei grandi tomi scritti da Edward Gibbon sul “Declino e caduta dell’Impero Romano” (Mondadori, ed. italiana 1986).

Siamo in una storia della Storia, scritta da uno dei più grandi studiosi dell’epoca romana che, a soli ventuno anni, aveva già una padronanza di molte lingue e che difettava solo sul francese. Nell’Inghilterra settecentesca, Gibbon è quel ragazzino fragile, cagionevole, privato dell’affetto di sorelle e fratelli da morti premature, nonché dalla dipartita della madre.

Lasciato alle cure di una amorevole zia, sballottato dal padre da un medico all’altro, da un precettore ad un altro, il giovane futuro storico della Roma antica somiglia molto a Leopardi nel suo studio tutt’altro che matto e disperatissimo, ma certamente compulsivo, senza alcuna sosta. Nemmeno quasi per l’amore.

L’occasione di una vita sarà la sua improvvida conversione al cattolicesimo che, mandando su tutte le furie il genitore anglicano, lo costringerà ad un benevolo esilio in quel di Losanna per rimettersi in pare con la fede protestante. Quanto meno… E lì conoscerà, unica volta nella sua breve esistenza (morì infatti a soli cinquantasette anni nel 1794) un trasporto amoroso per la figlia di un pastore calvinista, una graziosa e gentile fanciulla: Suzanne Curchod.

La sorte, o per meglio dire la combinazione di una eterogenesi di fini, impedirà a Gibbon di sposarla e consentirà a mademoiselle Curchod di diventare la moglie di quello che diventerà, suo malgrado, uno dei primi protagonisti della scena rivoluzionaria francese, dal lato di corte e di governo del regno: Jacques Necker.

Gibbon, un ometto di bassa statura e dalla sempre più manifesta tendenza all’obesità, proseguirà nei suoi studi e, ancora in vita il padre, prenderà a viaggiare per l’Europa, volendo conoscere non solo il mondo in cui si trovava a vivere, ma anelando a raggiungere quella Roma di cui aveva sempre letto e che mai aveva potuto vedere.

La città eterna lo sconvolgerà per la potente bellezza delle sue maestose rovine che – dirà – superavano qualunque descrizione si potesse fare della sua stessa grandezza ben prima del declino e della caduta dell’impero.

Roma gli si mostra in tutta la sua bimillenaria potenza, nella stratificazione dei sedimenti di una storia che non è occultata dal decadentismo pontificio, dalla reazione e dalla conservazione bigotta dei costumi: dell’Urbe può vedere tanto la vita militare quanto quella civile, passando attraverso le attività ludiche e quelle del foro. C’è praticamente tutto nella maestosa imponenza del Colosseo, nella vecchia Curia senatoria, nelle terme di Caracalla, nelle mura aureliane.

L’idea di scrivere una storia che riguardasse la Roma repubblicana gli era balenata in testa già da qualche tempo. Il progetto adesso muta, si espande, perché Gibbon intende redigere uno studio che parta da una indagine anzitutto sociale e politica di quel tempo remoto: una comprensione della vita quotidiana dei romani unitamente ad una disarticolazione del potere imperiale, della sua gestione fin nelle più remote scene di amministrazione locale.

Quello che gli interessa non è semplicemente descrivere cronologicamente i fatti, mettendo in fila una sequela di date, nomi e di reciprocità tra gli stessi. Gibbon mette tutta la sua grande cultura giovanile al servizio di uno studio veramente meticoloso: forse il primo dell’età moderna che sia stato redatto mettendo particolare attenzione alla verifica delle fonti. Da quelle propriamente storiche (Tacito, Livio, Svetonio, Cicerone, Seneca, Cesare stesso ed Augusto, ecc.) a quelle letterarie.

Il Virgilio delle “Georgiche” per lui non è semplicemente un poeta, un cantore della straordinaria meraviglia della vita agreste. E’ l’esecutore di un disegno imperiale, di un preciso dettame augusteo sulla conversione dei legionari dal militarismo al civismo: Ottaviano aveva bisogno di tempo per pagare tutti i suoi fedeli servitori nelle guerre che aveva condotto prima della proclamazione della “pax romana“.

Ne trovò tanto, anche grazie all’autore dell’ “Eneide“, da riuscire nel giro di tre decenni a sostanziare un fondo solido per la liquidazione delle paghe di tutti i soldati.

Edward Gibbon così approccia il metodo storico: fin dentro le più recondite e improbabili spiegazioni dei fatti, superando la tentazione del pregiudizio ricorrente, dell’abitudine a riscrivere e riproporre versioni del passato ancorate a veri e propri dogmi incrostatisi nel corso dei secoli fin dentro le pagine anche più sincere dei tramandatori delle straordinarie vicende della grande epopea romana.

La sua dedizione all’opera è pari a quella che per tutta la vita ha avuto nei confronti di tutte le altre discipline e conoscenze con cui è venuto a contatto.

Nulla è lasciato alla faciloneria di un commento approssimativo e, anche quando si lascia andare a giudizi critici, a condanne o ad assoluzioni di questo o quel comportamento di consoli, condottieri e imperatori, non permette mai alla sua interpretazione di scavalcare l’oggettività dei fatti, la loro corrispondenza con le fonti da cui ha attinto.

L’enormità dell’opera, tremila pagine divise in sei volumi, ha fatto la fortuna della stessa ma ha anche impedito a molti di poterne fruire in modo completo o, comunque, tale da renderle giustizia e, ugualmente, arricchirsi di un così grande patrimonio conoscitivo.

Per questo a Dero Ames Saunders andrebbe fatto un monumento: per ringraziarlo di un altro enorme lavoro. Quello di sintesi ragionata della mastodonticità gibboniana sulla storia di Roma, quello dell’essere riuscito ad offrire ai lettori un compendio che non eradica la natura prima dell’opera, le grandi capacità narrative e descrittive dello storico e, così, ci restituisce una vista sul mondo antico per niente alterata dalla riduzione forse non necessaria ma, certamente, opportuna se si vuole poter avere proprio il tempo di leggere Gibbon.

Stiamo parlando di uno storico settecentesco che, tre secoli e mezzo dopo, ancora giganteggia, insieme a Theodor Mommsen, nello studio e nella disamina della complessità di una società che, da piccola città nata nella notte del mito, divenne una rivoluzione del mondo allora conosciuto.

L’organizzazione dello Stato romano è per Gibbon tanto interessante quanto lo sono del strategie belliche con cui questo enorme colosso transcontinentale si tenne in piedi per secoli e poi, con una repentinità che sconvolge, venne travolto dal mutamento culturale, sociale e religioso del Cristianesimo, che pure seppe in parte inglobare e assimilare, e più di tutto dalle pressioni esterne dei popoli che dilagavano nelle pianure europee, fin dalle remote steppe orientali.

Non era soltanto più la minaccia partica ad impensierire l’impero dei cesari: l’antico nemico, che per primo Giulio Cesare aveva sognato di sottomettere, quasi era un ricordo rispetto alle novità rappresentate dai Goti che le truppe di confine vedevano attestarsi dall’altra riva del Danubio e del Reno.

Gibbon finge di sorprendersi del declino e della caduta di Roma. O, per meglio dire, deve potersene stupire per offrire ai lettori tutta quella ricchissima analisi, che per lo meno riguarda la fine della parte occidentale dell’impero, e che dimostra come tante piccole storie sono i pezzi di una figura da puzzle che altrimenti sarebbe inconoscibile, impercettibile e invisibile.

Non esiste, quindi, mai e poi mai un solo e solissimo motivo al principio dei grandi stravolgimenti epocali che investono la storia umana: tutta una serie di circostanze concorrono a fare in modo che si verifichino quei cambiamenti che, troppo spesso, leggiamo attraverso le lenti del nemico primo di Gibbon, quel “pregiudizio” che è prima di ogni altra cosa un atteggiamento individuale e collettivo al tempo stesso, di cui ci serviamo per compiacerci o dispiacerci di Tizio o Caio, di un fenomeno piuttosto che di un altro.

Estromettere dalla lettura critica della Storia il pregiudizio personale, significa anzitutto fare in modo che i fatti riacquistino il loro esatto posto nelle dinamiche che hanno prodotto i mutamenti dialettici, i contrasti politici, le lotte fra le classi che – ci vorrà ancora un po’ di tempo per fare luce in merito – sono alla base dello sviluppo umano (negativamente e positivamente inteso).

Gibbon merita di essere letto, ricordato e proposto per la eccezionale capacità di divulgazione della Storia stessa. Ecco: potremmo definirlo così, come oggi definiamo molti storici che vanno in televisione. Un divulgatore. Purtroppo, come già detto, la grande mole della sua opera ha impedito a lungo che fosse diffusissima, nonostante il suo nome echeggiasse in ogni luogo di studio d’Europa.

Il suo stile narrativo è una unità simbiotica tra storiografia, letteratura storiografica e romanzo storico. Merito del suo stesso modo di studiare, apprendere e tradurre in scrittura per i suoi lettori: «…modellare di getto un intero paragrafo, ripeterlo ad alta voce, depositarlo nella memoria, ma sospendere l’azione della penna fin tanto che non avessi dato l’ultima rifinitura al lavoro».

La modernità della sua opera certamente rimane intatta per i primi tre tomi originali e per la prima parte del compendio messo insieme da Saunders (unitamente ad una serie di noterelle utili per capire il collegamento da un capitolo all’altro e le eventuali cesure provocate dalla scelta utile per offrire ai lettori quella sintesi fatta intorno agli ’50 del secolo scorso).

La seconda parte dell’opera di Gibbon, soprattutto alla luce di tutta una serie di nuove scoperte storiografiche fatte a cavallo dell’800 e del ‘900, è a questo proposito forse meno interessante, ma non è certo colpa dello storico britannico. Quello che ci interessa è, oltre alla storia del declino e della caduta dell’Impero Romano, proprio la storia nella Storia: l’interpretazione settecentesca e la visione della storia antica che allora si poteva avere e che si poteva offrire ad un pubblico vasto.

Gibbon ci ha concesso di poter godere di un duplice lascito: la storia fluente e circostanziata di una Roma che si avvia al suo epilogo e un lavoro di studio, analisi e critica che è utilissimo per ricostruire il metodo storico prima dei suoi moderni sviluppi nel “secolo breve“. L’importanza e l’eco nei secoli dello storico britannico sono, per questo, più che meritate.

DECLINO E CADUTA DELL’IMPERO ROMANO
EDWARD GIBBON
OSCAR MONDADORI
€ 15,00

L’opera completa di Edward Gibbon “Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano” è edita da Einaudi in tre volumi: qui il collegamento.

MARCO SFERINI

8 marzo 2023

foto: particolare della copertina del libro


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