La Repubblica fondata e caduta sul lavoro

Il grande gigante di ferro e acciaio si è schiantato al suolo. Si è trascinato dietro lo spazio, il tempo, la vita intera di tre operai che stavano sulle...

Il grande gigante di ferro e acciaio si è schiantato al suolo. Si è trascinato dietro lo spazio, il tempo, la vita intera di tre operai che stavano sulle sue spalle, al livello dell’orizzonte di un cielo torinese, sopra i tetti delle case dove era possibile scattarsi un selfie a fine giornata, proprio quando il tramonto rende più bello un lavoro pericoloso, acrobatico, per cui occorre uno speciale corso di formazione e un apposito patentino. Bisogna avere una specializzazione accurata, conoscere ogni minimo particolare: dalle leggi della fisica su carichi, pesi, bilanciamenti, stabilizzazioni con le zavorre a terra e con i contrappesi lassù, a trenta metri di altezza. Forse anche di più.

La gru su cui lavoravano Filippo, Roberto e Marco, ha forse ceduto alla base; o forse è stato il braccio dell’autogru che ne dirigeva le operazioni a causarne sbandamento e crollo rovinoso al suolo. Lo accerteranno le perizie ordinate dalla magistratura.

Ma una cosa sembra potersi ripetere anche in questa tragedia: non esiste incidente o morte sul lavoro che non sia causata da una mancanza di sicurezza che da una parte non irrilevante del mondo delle imprese viene sempre vista come un costo da ridurre, da scansare, mentre dovrebbe essere intesa come una grande valorizzazione proprio della qualità e anche della quantità di lavoro che si svolge.

Il grande gigante di ferro e acciaio, lì in mezzo a via Genova a Torino, nella periferia sud della prima capitale d’Italia, è ora immobile: ha sventrato alcune abitazioni, ha distrutto macchine e quasi ucciso dei passanti. Per puro caso non c’era molta gente in fila alla posta lì accanto, vicino ai bar o nella corsia autobus.

Ma tre operai sono morti e si aggiungono a quegli altri 1.087 che sono, in questo 2021, il bilancio ecatombale di una strage che conta ogni giorno proprio tre morti. Gli infortuni, rispetto al 2020, sono aumentati di quasi 30.000 casi, mentre diminuisce il numero degli ispettori del lavoro, mentre manca – come hanno sottolineato i sindacati – un vero piano nazionale per affrontare una emergenza che è di tutto il Paese e che non riguarda solamente un settore lavorativo, ma coinvolge un po’ tutte le categorie.

Non è nemmeno vero che il piano di ripresa del governo con tutto questo non c’entri, come si è affrettato ad affermare il ministro Cingolani. Il superbonus sui lavori edilizi ha fatto schizzare in alto la curva dei cantieri aperti un po’ ovunque: quasi 60.000 cantieri, messi all’opera con una certa fretta per non perdere le detrazioni fiscali del 110%, per beneficiare di un maxisconto dell’erario su ristrutturazioni di facciate, tetti, su lavori anche non urgenti che rientrano in questa casistica.

L’interesse, dell’impresa, dei condomini, del governo, sono alla fine corresponsabili di una accelerazione dei tempi che non è rispetto della sicurezza, ma l’esatto opposto. La fretta, si sa, è sempre cattiva consigliera. E a volte i consigli che dà sono quelli di risparmiare ore, giorni di lavoro, tralasciando quelle che vengono considerate inezie nell’economia complessiva dello svolgimento delle mansioni tanto singole dell’operaio quanto dell’intero cantiere.

Ma nelle fabbriche la situazione non va meglio: lo sfruttamento intensivo delle lavoratrici e dei lavoratori si somma alle condizioni di precarietà esistenti, quindi a mancate formazioni professionali che, se forse non escludono e non possono del tutto escludere incidenti dovuti a distrazioni o imprudenze delle maestranze, potrebbero certamente ridurne il costo in termini anzitutto di mutilazioni e, nei tanti casi peggiori, di morte.

La tragedia della gru di Torino ci riporta alla mente quella degli operai della ThyssenKrupp, investiti da una esplosione di una conduttura di olio bollente, da fumi e gas altrettanto letali: otto morti in balia della giustizia italiana e di quella tedesca. Rimpalli deprimenti di responsabilità, per arginare i costi economici del disastro per evitare le ripercussioni giudiziarie che, tuttavia, dieci anni dopo la tragedia, nel 2017, arrivarono con la condanna di quattro ex dirigenti dell’azienda la cui condotta «ha provocato, per la totale e consapevole mancanza di adeguate misure di sicurezza», come scritto dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza definitiva.

Il grande gigante di ferro e acciaio, che se ne sta accasciato e accartocciato nel silenzio dopo il boato che ha avvolto l’intero quartiere torinese, è la plastica immagine di un crollo di migliaia i migliaia di vite su cui è troppo facile scaricare le responsabilità ultime.

Le morti sul posto di lavoro non sono omicidi bianchi, sono una cronaca invece nerissima, perché sono la conseguenza finale di un processo di deresponsabilizzazione che molte imprese si attribuiscono arbitrariamente, eludendo le norme del “Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro“, tralasciando protocolli di gestione di fabbriche e cantieri, aprendo così la strada ad una serie di eventualità per i lavoratori che, altrimenti, non sarebbero tali.

La revisione del TUSL è stata più volte richiesta dal sindacato, ma il Parlamento e i governi non si sono mai occupati in questi decenni di affrontare con una visione attenta e complessiva il problema veramente nazionale della messa in sicurezza di quel lavoro su cui sarebbe fondata la Repubblica. Anche davanti ad una necessità oggettiva di un adeguamento delle normative agli sviluppi del mondo degli appalti e delle costruzioni, non si può non vedere come la responsabilità primaria risieda nel comportamento padronale, nella gestione dei lavori, nelle direttive che vengono date agli operai che non sono lì per andare a morire, ma per guadagnarsi i salari più bassi d’Europa a fronte di rischi spropositati.

E comunque nessun salario, medio o alto che sia, deve costringere a lavorare con una percentuale di probabilità di tornare a casa alla fine della giornata inferiore a quella per cui si è usciti al mattino… Visto che la storia si ripete sempre in questa cornice infausta, è evidente che il problema assume, col passare del tempo, proporzioni tali da escludere ormai a priori la casualità, tanto da farla sembrare un insulto se ipotizzata quando tocca guardare, leggere e riflettere sulle morti delle lavoratrici e dei lavoratori nelle otto ore (e più…) in cui sono relegati alla macchina. Cui non si sfugge. Mai.

Quanti miliardi del PNRR sono stati investiti nella sicurezza sui posti di lavoro? Si tratta di cifre, anzitutto, per stabilire a che punto approderà quel dialogo tra sindacati e governo sulla riformulazione del Patto con le realtà produttive che Draghi ha esposto all’assemblea annuale di Confindustria. La presa in carico di una emergenza come quella della sicurezza dei lavoratori esige un aggiornamento non solo legislativo ma anche strutturale: occorre una banca dati nazionale su tutte le tipologie di infortuni e morti in ogni luogo di lavoro; occorre l’assunzione di migliaia di ispettori che oggi mancano e che vigilino soprattutto nei comparti dell’industria tecnica, di quella pesante e dei cantieri. Dalle grandi opere a quelle su un singolo condominio come la strage di Torino ci mostra oggi.

Lo Stato deve interfacciarsi con le amministrazioni locali e coordinare, sentendo prima di tutto i lavoratori, che sono gli ultimi della catena ma i primi a conoscere il funzionamento di macchinari e strutture e quindi a poter rilevare tutte le manchevolezze del caso. Questo non significa tralasciare la responsabilità delle aziende, ma semmai vuol dire prendere in considerazione più voci: prime fra tutte quelle di chi è a diretto contatto con quelle condizioni di lavoro che possono causare incidenti più o meno pericolosi.

Se l’interlocutore del governo rimane sempre e soltanto l’impresa, se i sindacati non vengono ascoltati e i lavoratori nemmeno presi in considerazione; se il profitto rimane il punto da cui partire e il salario e la sicurezza i punti cui non arrivare a discutere, allora nessuna buona intenzione si tradurrà mai in atti concreti.

La gigantesca gru di via Genova è ancora lì. Ci vorrà del tempo per rimuoverla dopo che l’area sarà stata dichiarata dissequestrata dalla magistratura. Ci vorrà del tempo per metabolizzare tutto questo. Ma quell’immagine del gigante piombato sulla strada con un boato assordante rimarrà oltre il tempo delle perizie, delle sentenze, così come sono rimaste nella mente di tutti il rogo della Thyssen e le tante altre tragedie che potevano essere evitate e che non lo sono state per l’avidità di una classe industriale che cinicamente assolve il suo ruolo in questo sistema economico.

Un ruolo che, prima o poi, andrà superato.

MARCO SFERINI

19 dicembre 2021

foto: screenshot

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