Il disastro economico globale nella guerra quasi mondiale

Il dato economico – sociale più rilevante emerso nelle giornate scorse è quell’aumento dei prezzi delle materie prime e dei fondamentali prodotti alimentari per un sostentamento sufficiente, se non...

Il dato economico – sociale più rilevante emerso nelle giornate scorse è quell’aumento dei prezzi delle materie prime e dei fondamentali prodotti alimentari per un sostentamento sufficiente, se non proprio a vivere decentemente, almeno a sopravvivere il meno indecentemente possibile. Laddove la decenza non è un fatto esteriore, edonistico, da mostrare nelle quotidiane passerelle involontarie che ci creiamo attorno quando camminiamo per strada; no, la decenza, in questi casi, è il livello di accettabilità del compromesso stesso con e dentro l’economia di guerra.

Il direttore de “La Stampa“, Massimo Giannini, e quello di “Limes“, Lucio Caracciolo, che sono spesso in televisione per raccontare e descrivere il loro punto di vista sul conflitto interno ed esterno all’Ucraina, lo vanno dicendo da settimane: nonostante non vi sia un proclama ufficiale del governo italiano, il nostro Paese è passato dallo stato di emergenza pandemico-sanitario a quello bellico.

E, in fondo, non possiamo nemmeno dirci così lontani da una guerra che dista materialmente poche migliaia di chilometri dai confini italiani, mentre conta molta meno distanza se parliamo di rapporti tra Roma, Bruxelles (Europa e NATO) e Kiev in termini di approvvigionamento di armamenti.

L’economia di guerra è da un lato impoverimento sociale e dall’altro aumento delle spese militari. E’ al contempo taglio della spesa scolastica e implementazione dei capitoli di spesa per l’aumento degli organici dell’esercito, per l’adeguamento delle strutture, dei mezzi e degli ordigni utili – si dice – a difendere il Paese dall’aggressione eventuale di una Russia che si scatenasse ben oltre il mattatoio ucraino, finendo per coinvolgere l’Europa intera in una guerra inflazionatamente definita – forse pure auspicata da qualcuno – come possibile scenario di conflitto mondiale.

Mondiale, in riferimento soprattutto alla terminologia novecentesca che ha classificato le nuove guerre tra gli Stati per quello che effettivamente stavano divenendo: non più gli scontri ambivalenti tipici delle schermaglie politiche di un imperialismo tutto sommato limitato nelle aspirazioni territoriali, come quello che aveva contrapposto Napoleone III al Principe Otto von Bismarck nel 1870-71, bensì veri e propri campi opposti, alleanze frontali tra Stati un tempo nemici, dopo aver scoperto i grandi interessi del colonialismo e la corsa all’accaparramento delle risorse più disparate a tutto scapito delle popolazioni africane, asiatiche e americane.

Di pari passo anche l’economia di guerra è cambiata al mutare della guerra da locale a mondiale e, infine, oggi, a guerra “mondal-globale“, perché gli interessi sono planetari, si riversano su ogni polo economico del pianeta e non risparmiano niente e nessuno.

Gli effetti delle scelte politiche cinesi, oppure di quelle statunitensi o russe, non restano nel campo pure ampio della vicinanza nel cortile di casa: vanno ben oltre questi che un tempo erano aree geopolitiche di sufficiente espansione imperialista e si scontrano, in un regime di concorrenza spietatissima, sul terreno finanziario-borsistico provocando ricadute sulle vite di interi popoli, il cui stile di vita non dipende più soltanto dalle politiche nazionali.

L’aumento del costo dei generi alimentari, causato da una commistione interessata tra speculazione e incettazione, causerà a breve termine un effetto inflattivo che – dicono gli analisti delle più oculate centrali di tutela del capitalismo liberista – rischia, almeno in Italia, di arrivare all’8%. Un dato enorme, se si pensa che quella media nel corso del 2021 si era attestata all’1,9% con una oscillazione ventennale tra il -01% del 2016 e il 3,3% del 2008. Questa tendenza alla diminuzione del costo della vita non è andata, però, di pari passo con un aumento dei salari e delle pensioni: non è, infatti, il frutto di una espansione della domanda ma il quasi costante effetto di un aumento delle esportazioni che, per ovvie, evidenti ragioni non registreremo per chissà quanti mesi. Forse anni.

La guerra tra Russia e Ucraina è un voltare pagina davvero secolare anche – e soprattutto – per i rapporti economici tra i grandi poli di aggregazione del capitale plurinazionale: Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale hanno iniziato a considerare vari indici di crollo dell’economia mondial-globale.

La prima stima a questo proposito non poteva non riguardare l’Ucraina: un segno meno davanti ad un 35% veramente devastante per un paese che uscirà prostrato dal conflitto, forse amputato di quella “Lombardia dell’Est” che è per Kiev proprio il Donbass, dove si trovano le più importanti industrie della regione, tra cui quelle minerarie e, altro elemento di non trascurabile conto, che affaccia sul Mar d’Azov in un Mar Nero che è sempre stato, da almeno tre secoli a questa parte, un grande bacino di transito dei commerci internazionali.

Persino un giovanissimo Garibaldi faceva rotta avanti e indietro per la Crimea e per i porti azoviani, importando in Italia grandi quantitativi di grano e, se c’è una pagina di storia per cui ricordiamo la penisola annessa da Putin nel 2014 alla Federazione russa, non è certo la vita di Sebastopoli nel corso dei secoli, ma un’altra guerra, combattuta tra le potenze europee per tre anni tra il 1853 e il 1856. Ufficialmente per il controllo dei luoghi santi, ma Russia e Turchia avevano ben altri motivi per fronteggiarsi proprio nel Mar Nero, così come Francia, Inghilterra e persino il Regno di Sardegna ne avevano guardando ai rispettivi interessi nazionali (o nazionalistici).

Abbiamo sottovalutato per troppo tempo l’importanza strategica, per una economia mondiale sempre più globale, della regione ucraina e caucasica: ci siamo giustamente concentrati sulle altre guerre che hanno interessato Asia e Medio Oriente e abbiamo trascurato il quadrante est del Vecchio Continente, pensando che, tutto sommato, i problemi fossero ben altrove.

Invece, da trent’anni a questa parte, dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine dell’impero sovietico, quell’unipolarismo che pareva consolidarsi sulla scia dell’espansione economica americana (anche se le bolle speculative e i relativi crack finanziari avrebbero dovuto farci aprire per tempo gli occhi e le orecchie…) è venuto meno in pochi anni, complice anche la scossa tellurica della pandemia.

Il FMI, nello stimare gli indici di stagnazione e di recessione economica mondiale, ha tenuto ovviamente conto dell’ondata milionaria di profughi che si sta riversando soprattutto in Europa e che peserà sulla tenuta sociale dei singoli paesi dell’Unione: le prime divisioni politiche riguardo all’atteggiamento da adottare sull’embargo nei confronti del gas russo sono l’evidenza migliore della disparità esistente (e peraltro non negata da nessuno) tra l’asse franco-tedesco e il resto di un continente che vede avanti a sé lo spettro di un impoverimento di massa, in particolare per i ceti e le classi sociali già fragilissime, piegate ulteriormente dalle restrizioni del Covid-19.

Non è un partito comunista e nemmeno un sindacato di sinistra a dire che l’aumento dei prezzi, sottolineato con preoccupazione anche in questi giorni dalla FAO, avrà «un impatto mondiale specie sulle famiglie più povere». Vale la pena sottolineare le parole: “impatto mondiale“. Il FMI le adopera coscientemente, sapendo che quel 35% in meno di ricchezza in Ucraina significa percentuali a due cifre di rialzo inflattivo per tanti altri paesi e persino per intere aree del pianeta.

La crisi “ad ampio raggio“, preconizzata dai tutori del capitale globale, sta muovendo i suoi passi di consolidamento e, per questo, la mancata ricerca di una soluzione diplomatica, di un compromesso che impedisca la vittoria di qualcuno in questa sciaguratissima guerra, unitamente all’incremento di una industria bellica che lavora senza sosta per fornire all’Ucraina droni, missili, carri armati e lanciarazzi di ultimissima generazione, nonché una politica e una pubblica opinione indirizzate a questo scopo, sono tutti quanti fattori di sostegno diretto o indiretto alla crisi economica che è alimentata dalla guerra (da cui, a sua volta, è alimentata e sostenuta).

Una politica di pace non conviene ai grandi affaristi che circolano nelle più grandi borse mondiali; non conviene nemmeno agli statisti che vedono nel conflitto l’occasione per rilanciarsi e per aprire nuovi scenari coloniali, nuove espansioni imperiali, rimodellando una geopolitica finalmente non più ingessata e imperturbabile. Una politica del compromesso e della fine del conflitto in brevissimo tempo non conviene agli Stati Uniti, che vogliono far trarre profitti alle loro industrie da questo conflitto e che vogliono sbarazzarsi di Putin su medio termine, senza sporcarsi troppo le mani, senza intervenire ufficialmente e direttamente sul campo.

La guerra conviene a molti, ma non ai popoli. Di sicuro non conviene a noi e nemmeno agli ucraini che, mentre aspettano di fuggire verso ovest, si vedono piovere addosso missili che lasciano a terra corpi amputati, lacerati, distrutti dal cinismo di chi ricerca solo potere economico, consenso finanziario e solidità politica per continuare la contesa globale, per far largo ad interessi sporchi di sangue, di tanto sangue. Il sangue di altri. Sempre di altri.

MARCO SFERINI

9 aprile 2022

foto: screenshot

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