Sotto un accento sbagliato

A 10 anni dalla strage di Lampedusa – 3 ottobre 2013, 368 morti accertati, 151 sopravvissuti – sull’isola delle Pelagie è avvenuta l’annuale commemorazione per una giornata che, per...

A 10 anni dalla strage di Lampedusa – 3 ottobre 2013, 368 morti accertati, 151 sopravvissuti – sull’isola delle Pelagie è avvenuta l’annuale commemorazione per una giornata che, per ora è diventata quella in memoria delle vittime dell’immigrazione.

Fare un bilancio di quanto accaduto in questi 10 anni significa andare a scandagliare una fossa comune chiamata Mediterraneo Centrale, in cui sono sepolte decine di migliaia di uomini, donne e bambini, colpevoli di essere nati unicamente, come cantava un tempo Pino Daniele, “sotto un accento sbagliato”.

E il bilancio è reso ancora più catastrofico se si pensa a quanto accaduto nel Mar Egeo, lungo la rotta balcanica, al confine fra Polonia e Bielorussia, nei deserti del Sahel, nel carcere a cielo aperto che è la Turchia, nei campi di detenzione in Libia dove, grazie agli accordi sanciti nel 2017 (Memorandum of Understanding) con l’Italia, in 5 anni circa 100 mila persone sono state respinte, senza neanche che venisse verificata la loro richiesta d’asilo.

L’agenzia di controllo delle frontiere Frontex, peraltro con i bilanci sotto inchiesta per frodi e violazioni reiterate dei diritti umani, non manda più da anni missioni marine per eventualmente effettuare soccorsi.

Nel tratto di mare più pericoloso e controllato del pianeta volano solo droni modernissimi e aerei che segnalano la presenza di imbarcazioni con i fuggitivi ai Paesi che, considerati “sicuri”, devono controllare una zona SAR (ricerca e soccorso) che è di loro competenza. Sono i governi di quei Paesi a decidere se e come intervenire, se, come e chi salvare.

Già in numerose occasioni il governo della Tripolitania (ovest della Libia), hanno mancato ai loro doveri, simile l’atteggiamento di Malta che è arrivata a privatizzare soccorsi e persino le deportazioni. Ma le persone continuano a giungere, a morire e a giungere, perché non è possibile, come declamano incapaci e perfidi esponenti politici nostrani, alzare cancelli sul mare.

La cronaca di questi mesi sancisce, atto dopo atto il fallimento totale delle politiche proibizioniste europee, passate e presenti.

I vertici come quello di giugno a Lussemburgo, la Conferenza di Roma a luglio, gli accordi sul modello libico stipulati col dittatore tunisino Saied, i tentativi di rilanciare con una stretta repressiva in Italia attraverso la costruzione di nuovi centri di detenzione e la velocizzazione delle pratiche di rimpatrio, sembrano tutti miseri, cattivi e maldestri tentativi di contentare un’opinione pubblica che chiede risposte a ben altri problemi e che guarda anche con stanchezza e noia gli annunci di Stato.

Le ultime volgari mosse si sono infrante in ostacoli legali non appena si è tentato di applicarli. Una magistrata di Catania sta subendo il linciaggio morale semplicemente perché sta facendo il proprio dovere.

Ha considerato inapplicabile l’ennesimo decreto legislativo con cui si inaugura la procedura accelerata per i richiedenti asilo che, provenendo da Paesi ritenuti sicuri e pacifici, dovrebbero essere rapidamente rimpatriati. Il tribunale ha considerato illegale il trattenimento di 3 persone nel centro adibito di Pozzallo, illegale la procedura accelerata – la richiesta d’asilo è un diritto soggettivo e non legato al paese.

Ci si riferisce alla possibilità di poter pagare con una fideiussione che il richiedente deve fare direttamente e in prima persona di 4938 euro, per evitare di essere detenuto in un CPR ad hoc, nei 28 giorni in cui la sua pratica viene esaminata. Se sei ricco ti salvi insomma.

Tutto bocciato. E sta andando male anche il braccio di ferro che il governo italiano sta tenendo con la Germania, il cui governo ha deciso di sostenere economicamente le navi delle ong che attuano soccorsi in mare, sta perdendo su tutta la linea il confronto con tedeschi e francesi che non vogliono più ovviare alle carenze di Roma.

Non basta, come da tempo avevamo scritto, il presidente / dittatore tunisino non accetta di svolgere il lavoro sporco che gli si chiede di fare per un’elemosina di finanziamento e di sostegno alla realizzazione di centri di detenzione. Da Sfax, il principale porto tunisino di partenza, si continuerà a partire perché la Tunisia non è in grado e non vuole farsi carico delle pressioni che subisce all’interno.

Il presidente utilizza lo stesso allarme che va di moda col governo Meloni, non accetta che “un paese arabo subisca una sostituzione etnica diventando africano”, riferendosi a chi proviene dall’Africa Sub Sahariana.

Dietro il rifiuto c’è non solo la sciatteria coloniale del duo Meloni Von der Leyen, ma anche il ricatto del Fondo Monetario Internazionale che è disponibile ad aiutare Tunisi ad uscire dalla crisi economica solo in cambio di misure draconiane che distruggono quel poco che resta di stato sociale.

Dieci anni dopo, in tale contesto e con le istituzioni europee che minacciano di spostarsi sempre più a destra, non possiamo aspettarci altro che un peggioramento della situazione per chi fugge e per chi cerca di accogliere.

O l’Europa decide di darsi una strategia a lungo termine, di prevedere canali d’ingresso regolari in tutto il continente e non limitati a pochi casi umanitari, o mette in piedi azioni di cooperazione da partenariato fondato su basi paritarie, o si ridefinisce, in ambito continentale un sistema di accoglienza, di protezione e di salvataggio degni di questo nome o la catastrofe a cui si va incontro sarà ancora più grande.

Non ne pagheranno le spese solo coloro che periranno nei naufragi o nei centri di tortura, sarà un colpo forse mortale, per l’idea stessa di casa comune europea.

STEFANO GALIENI
Responsabile nazionale immigrazione, Rifondazione Comunista – Sinistra Europea

da Transform Italia

foto: screenshot

categorie
Letture

altri articoli