Sorridono, gli operai e i sodali che lavorano al Festival letteratura working class, sorridono perché gli viene naturale, sotto il sole primaverile che riesce a rendere bello perfino lo stradone anonimo lungo il quale corrono da un lato la fabbrica e dall’altro l’orrido centro commerciale.

Sorridono però tengono la guardia alta, e hanno ragione: che è un minuto che ti volti e ti truffano (lo sanno loro, che l’hanno vissuto sulla loro pelle lì d’intorno nell’area industriale). È un attimo che da narratore della tua storia diventi narrato, da protagonista gregario, da soggetto oggetto.

Perché il drago si trasforma in poco, e il drago è la fabbrica, il capitale, l’istituzione, la politica, la tv che ti chiede la finta diretta, loro che di finto non sanno niente: conoscono solo cose vere.

Lo dicono dal palco, dicono grazie ma anche: siamo stanchi, mille giorni sono tanti, non ci fregate. È da questo non possono che nascere due cose: o a questa fiducia si risponde con senso di responsabilità, che significa mi metto al servizio della tua causa affinché diventi la mia, ti do quello che chiedi per il meglio in cui posso affinché questo voi diventi noi. Oppure niente.

Il drago è un’immagine che usa Tove Ditlevsen, scrittrice danese da working class, tradotta in Italia da Fazi con la sua Trilogia di Copenaghen, lo dice nel primo volume: Infanzia. È figlia di un operaio, un giorno lei e la madre gli vanno incontro e lui ha uno sguardo vuoto, bucato: è stato licenziato, ed ecco, dice Ditlevsen «che la fabbrica da cui arriva tutto diventa drago».

Leggiamo questo passo su un palco davanti a tante persone. Quante? «Ne abbiamo contante un migliaio, ma poi non è importante il numero – mi insegna Alberto Prunetti – Bensì lo spirito». Davanti a tante persone che quell’istante lì lo hanno vissuto. L’istante del drago. E che da mille giorni lo reiterano qui perché sanno che la fabbrica è degli operai.

È difficile, ma è onesto. È tutto quello che di onesto abbiamo per un festival di letteratura working class che ha dato fastidio, molto fastidio. Perché gli operai chiedono aiuto agli scrittori e agli studiosi: aiuto a fare picchetto, a non restare soli, a cercare nelle pagine della letteratura mondiale un racconto che venga «dalla» fabbrica, non «sulla» fabbrica. Qualcosa come il drago, che o la vivi o non la sai.

Ed è vero che in Italia spesso il racconto operaio è stato vicariato dagli intellettuali, ma non è del tutto vero, non è sempre vero; basti la memoria di Il mondo deve sapere racconto dal call cencer di Michela Murgia.

Però il limite, la soglia resta lì e chi sale sul palco a parlare lo sa bene, lo sente bene: che noi si andrà e loro si resta. Che il fonico è giovane e un altro lavoro per dar da mangiare ai suoi figli l’ha trovato.

Ma alla banca che eroga il mutuo cosa gli racconta? E soprattutto, soprattutto, soprattutto: lo dice Dario, che dopo tre mesi senza stipendio, presi per fame, dire alla propria famiglia «Guarda vado a montare il palco per un festival di letteratura» è difficile. Perché sembri superficiale, perché il pane è la condicio sine qua, non la rosa.

Perché è esattamente quello che accade alle scrittrici working class, più alle femmine che ai maschi ovviamente. Che dicano loro «che scrivi a fare»? E qua che cade il confine: su questi corpi che vogliono farsi anima, su questo desiderio di potersi immaginare perché nell’immaginazione c’è speranza. «Al mattino la speranza c’era» è l’incipit di Tove Ditlevsen.

VALERIA PARRELLA

da il manifesto.it

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