Il progressismo pontificio scivola (sempre) sui diritti etici

Il prefetto del Dicastero per la dottrina della fede della Chiesa Cattolica Apostolica Romana, monsignor Víctor Manuel Card. Fernández, ha esposto in una conferenza stampa molto dettagliata il continuto...

Il prefetto del Dicastero per la dottrina della fede della Chiesa Cattolica Apostolica Romana, monsignor Víctor Manuel Card. Fernández, ha esposto in una conferenza stampa molto dettagliata il continuto di una dicharazione che riguarda la summa del pensiero pontificio su temi di grande importanza come l’aborto, la teoria del “gender” e il cambio di sesso, la maternità surrogata, l’eutanasia, il suicidio assistito, le migrazioni e la violenza che si può infliggere con l’utilizzo di Internet.

Il titolo di questa ennesima espletazione del pensiero vaticano su problematiche di natura essenzialmente etica ha qualcosa di distopico; pare quasi una sorta di proiezione esponenziale di sé stessi in una “Dignitas infinita” che, per l’appunto, non vorrebbe avere un confine come limite negativo, ma essere libera di andare verso chiunque da chiunque. Tutto molto condivisibile fino a quando si parla di diritti umani, di una morale, quindi, che si rifà al riconoscimento pieno di una uguaglianza sul piano dell’essenza dell’individuo.

Monsignor Fernández sottolinea che il dicastero della Santa Sede, in fondo, si è limitato a mettere insieme il pensiero di papa Francesco, sintetizzandolo per capitoletti e riunendolo dopo oltre dieci anni di pontificato. Per l’appunto, se si tratta di confrontarsi su temi come la pace e la guerra, i diritti universali dell’essere umano, il dibattito tra mondo religioso e mondo laico non stride affatto. Se, invece, ci si sposta su questioni che concernono la libera espressione della persona, oltre quelli che sono i dettami della dottrina cattolica, allora è del tutto evidente che l’attrito si fa sentire, eccome.

Fino a che la Chiesa riconosce ciò che non voleva ancora riconoscere ai tempi dell’Illuminismo, ossia che siamo tutti esseri viventi uguali in diritti e doveri e che, talvolta, maggiori doveri li hanno proprio gli esseri più intelligenti che, contraddicendo così una superstizione specista lunga migliaia e miglaia di anni, dovrebbero prendersi cura di tutti gli altri animali non umani e della natura nel suo complesso, fino a quel punto, si può concordare. Il Vaticano non scopre nulla di nuovo. Vi ha impiegato anche molti secoli per scrollarsi d’addosso il primato assoluto di sé stesso su tutte le altre chiese cristiane e sulle altre religioni.

Ovviamente considera sé stesso il vero interprete della volontà, quindi del verbo divino, mediante la rivelazione biblica ed evangelica; ma per continuare a potersi dire e provare ad essere tale, ha bisogno di adattarsi ai tempi. E chi meglio della Chiesa Cattolica lo ha saputo fare nel corso dei millenni? Nulla rimane mai uguale a sé stesso nella lunghessa infinita, quella sì, della quarta dimensione che ci comprende e ci trapassa, che tuttavia ci sfugge tra le mani. Ma i papi sembrano passare indenni attraverso i secoli, perché l’infelicità umana è tanta da far apprezzare il sogno di una vita eterna così come lo descrivono i sacerdoti.

Con dichiarazioni come quella di cui qui si sta scrivendo, la Chiesa ricorda ogni tanto ai propri fedeli e al resto del mondo che c’è un’etica che dovrebbe essere considerata superiore perché strettamente connessa al volere divino. Quindi un prescindere dalla personali convinzioni, dall’espressione laica di sé stessi e di intere comunità di popolo. Si parte già male, perché ogni punto di vista della Chiesa non può non prescindere dal creazionismo. Quindi, se si ammette la presenza del dio che i cristiani, i musulmani e gli ebrei condividono, sia pure raccontandolo in modo molto diverso tra loro, è evidente che tutto quello che è emanazione di dio ha la preminenza.

Su cosa? Su tutto. A partire dalle convenzioni, dalle tradizioni, dalle leggi e dai regolamenti che le comunità organizzate in Stati si danno cercando, dopo millenni, di fare in modo che queste regole siano uguali per tutti e che, quindi, non privilegino nessuno e non penalizzino dunque nessun altro. La laicità si esprime, fondamentalmente, nel riconoscimento di princìpi che, nell’ambito della società, sono universali e sono quindi diritti di ciscuno e di tutti. Senza distinzione, come recita la nostra Costituzione, tra l’altro di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

La citazione di una parte dell’articolo 3 della Carta fondamentale della Repubblica Italiana era d’obbligo. Perché è la morale laica che non pretende di contraddire ciò che ad esempio i cardinali vogliono comunicarci con la “Dignitas infinita“; semmai, invece, intende affermare che non esiste una morale superiore su cui qualcuno possa ritenere di diversificare i diritti del popolo italiano. Né in nome di un principio politico, né tanto meno in nome di un culto religioso. Da ogni pensiero complesso, quindi ricco di sfumature su tante questioni che concernono l’esistenza, derivano sintetici giudizi: su come ci si deve comportare per contribuire alla realizzazione di una idea di società e di vita.

La Chiesa Cattolica principia molto bene nella sua dichiarazione sulla dignità infinita: «Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi. Questo principio, che è pienamente riconoscibile anche dalla sola ragione, si pone a fondamento del primato della persona umana e della tutela dei suoi diritti». Vogliamo implementare l’articolo 3 della Costituzione e inserire questo periodo scritto dai monsignori del Dicastero per la dottrina della fede? Sarebbe una infiorettatura della prosa meno barocca usata nel 1948. Ma ci starebbe benissimo.

La premessa quindi è incoraggiante, perché si parla addirittura di “dignità ontolgica“, di qualcosa che non è metafisicamente immaginabile come diritto naturale, come espressione di un concetto da estendere universalmente. La dignità è nell’essere umano in quanto essere vivente, tangibile, essenza di sé medesimo e, per chi crede, quindi unità tra corpo e anima. Che anche quest’ultima debba avere una dignità ha, se tradotto su un terreno più laico e razionale, una gustosa afferenza con il riconoscere alla psiche quel che per molti secoli le è stato negato. La particolarità dell’unicità. I corpi si somigliano molto. Le interiorità emozionali sono invece straordinariamente uniche.

La Chiesa, quindi, si pone – come hanno sempre affermato tutti i pontefici – di stare dalla parte degli ultimi, dei più deboli, di coloro che non hanno diritti e sono vittime di tanti, troppi pregiudizi, privazioni, ingiustizie e vessazioni. Tutto molto bello anche qui. Peccato che la Storia sia andata diversamente. Tra il dire e il fare – ma questo riguarda il potere in ogni sua forma e in ogni espressione abbia assunto nel corso del cammino umano – c’è di mezzo molto di più del mare. Papa Francesco è un prezioso alleato delle ragioni della pace nel mondo. Ed è un preziosissimo assertore proprio della dignità umana a tutto tondo. Per chiunque.

Quando le voci laiche si fanno flebili, soprattutto nel campo progressista italiano ed europeo, sulle problematiche che riguardano le guerre, le migrazioni e, quindi, prevalgono le distinzioni dei governi sulla base di alleanze ad est o ad ovest, a sud o a nord del mondo, la voce del papa è quella più netta, chiara, limpida se si tratta di mostrare alla maggioranza delle persone che i conflitti sono la sconfitta della morale, dell’intelligenza e della dignità del nostro essere al vertice di una piramide storicamente evolutiva.

Ma quando si tratta, invece, di entrare nel merito delle decisioni personali sulla propria esistenza, su come esprimersi, su come relazionarsi con sé stessi, con gli altri in materia di desideri, affetti, sentimenti, ecco che entra in gioco la morale cattolica che è diretta espressione della parola di dio e che, quindi, diviene incontestabile e superiore a qualunque altro dettame comunitario, costituzionale, civile, civico ed etico. Perché la dignità di cui la Chiesa ci parla è emanazione della divinità e, pertanto, è tale nella sua completezza solo se si accetta quella che i cattolici chiamano “Rivelazione“.

Citando la Costituzione Pastorale “Gaudium et spes” del 7 dicembre 1965, nell’ambito del Concilio Vaticano II, «l’aspetto più sublime della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio». E tuttavia i cardinali e il papa insistono sul punto: la dignità umana prescinde da qualunque contesto, da qualunque credo. E’ ontologica. C’è e basta. Questo sarebbe un grande punto di appoggio su cui fare leva per sollevare molto più del mondo dalle sue orribili ingiustizie, che negano la dignità degli uomini e degli animali, della natura e di ogni espressione senziente.

Ma rimane una affermazione prettamente teleologica, che ha un senso solo se si fa parte del mondo cattolico, oppure di quello più vasto del cristianesimo. Per un laico non credente, la dignità è ontologica nel momento in cui la si afferma in punta di diritto e non soltanto per effetto di una dichiarazione che, concedendole la buona fede (è proprio il caso di dirlo), intende promuoverla ma che poi la esclusivizza e ne esclude coloro che non rientrano appieno nella dottrina e nella morale cattolica. Ci sono voluti cinque anni di lavoro – affermano i monsignori (e c’è da credergli, ovviamente) – per redigere un testo in cui si innalza la dignità a valore supremo e poi la si relativizza e settorializza meschinamente.

Nel testo prodotto dal Dicastero per la dottrina della fede, si riprendono i concetti di Francesco e li si ampliano molto. Ma i punti di partenza sono affermazioni che abbiamo imparato a conoscere da colui che viene definito “un papa progressista” e che, senza dubbio, se paragonato al sanpiodecismo di Ratzinger, è un grande innovatore dentro e fuori le mura vaticane. Ma prima di tutto è il papa. E il papa è e rimane il papa. Quindi, lo stupore che ogni tanto emerge quando si cerca un termine di paragone tra trattazione dei diritti umani, della pace e trattazione dei diritti civili, è quanto meno ingiustificato o, se vogliamo, un po’ puerile (senza nulla togliere alla straordinaria capacità intuitiva dei bambini).

Nel corso del suo pontificato, Francesco ha sentenziato: «La pratica della maternità surrogata viola, innanzitutto, la dignità del bambino e della donna. Auspico un impegno della comunità internazionale per proibire a livello universale tale pratica». Ed ancora: «Nessuna parola cambia la realtà delle cose: l’aborto procurato è l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita». Ed ancora: «La teoria gender è pericolossima, perché cancella le differenze, nella pretesa di rendere tutti uguali».

Uccisione deliberata e diretta, dice il papa. L’aborto non è un diritto, ma una offesa a dio, perché l’uomo, come nel caso delle pratice eutanatiche, si sostituirebbe al normale corso degli eventi di una esistenza che, pertanto, appartiene non completamente a noi, ma a qualcosa o qualcuno di trascendentale. Un tempo, e pure oggi ogni tanto, si sente dire che le guerre sono sante, benedette da dio. Che esistono fedeli e infedeli e che questi ultimi devono subire l’ira dei veri rappresentanti della volontà divina in terra.

Insomma, la morale religiosa cambia in quanto espressione della sovrastruttura che dipende da una serie di interessi e di poteri che si sostengono anche grazie all’apporto dei culti nel controllo delle masse e della loro volontà di azione e di reazione o, peggio, di passivizzazione e anestetizzazione delle coscienze critiche. La Chiesa e Francesco vorrebbero parlarci apertamente di dignità e poi pretendono di non riconoscerla quando si tratta di lasciare piena libertà a chiunque di decidere del proprio corpo: tanto nella fase di una vita che potrebbe essere più serena e felice se si potesse essere ed amare chi si vuole; quanto nella fase della fine della stessa vita, se si potesse scegliere di non soffrire inutilmente.

Qualche tempo fa ho letto alcuni testi induisti in cui si afferma che, capita nel corso della vita, di scegliere incosciamente di permanere nell’infelicità (ma non nel dolore fisico) perché si teme di uscire da quella che oggi verebbe definita una “comfort zone“. La paura del cambiamento è più forte della condivisione di uno stato di sudditanza psicologica ad un disagio. E’ più comprensibile questa lotta interiore, come dialettica tra conscio ed incoscio, rispetto alla sofferenza – morale e fisica – che la Chiesa vorrebbe ammantare di dignità.

Sostengono al Dicastero per la dottrina della fede: «...la sofferenza non fa perdere al malato quella dignità che gli è propria in modo intrinseco e inalienabile, ma può diventare occasione per rinsaldare i vincoli di una mutua appartenenza e per prendere maggiore coscienza della preziosità di ogni persona per l’umanità intera». Per chi ha passato la vita a pensare, scrivere e lottare – nel proprio piccolo – contro ogni sofferenza, per evitare quella completamente gratuita, considerandola assolutamente priva di qualunque senso nel nonsense dell’esistenza stessa, frasi come quella sopra sono irricevibili.

Per la Curia romana, quindi, devi avere tutta la dignità del caso, ti deve essere data, riconosciuta e garantita universalmente, ma non puoi contraddire il volere divino che consiste, nell’interpretazione tutta cattolica, nel non decidere di te stesso sull’istinto amoroso, sui desideri, sulle pulsioni sessuali, sulla libertà di viverle senza schemi e senza preclusioni; sul tuo dolore, sulla tua sofferenza psicofisica che deve essere patita e sopportata nel momento in cui entra in contraddizione con il dettame ecclesiastico, con la parola di dio.

Puoi amare chi vuoi, ma se poi resti incinta non puoi scegliere di non avere quel figlio. Lo devi avere e te lo faranno pesare e ti sentirai per molto tempo, se non per tutta la tua vita, con un dito accusatore puntato contro, perché hai fatto una scelta che è peccato, che è, usando le parole del papa definito progressista, “una uccisione deliberata e diretta“. La tua dignità di donna si ferma lì. Al confine della dottrina cattolica che, è tutto da dimostrare – ed è impossibile farlo -, non coincide con quello che magari è il volere di un possibile dio.

Puoi amare chi vuoi e non devi essere discriminato per questo. Ma, letteralmente nella dichiarazione cattolica, «voler disporre di sé, così come prescrive la teoria del gender, indipendentemente da questa verità basilare della vita umana come dono, non significa altro che cedere all’antichissima tentazione dell’essere umano che si fa Dio ed entrare in concorrenza con il vero Dio dell’amore rivelatoci dal Vangelo». Ecco i confini della dignità che la Chiesa pone. Tu puoi essere ciò che loro vogliono che tu sia. Non puoi essere ciò che tu vorresti davvero essere.

E tutto questo prescinde dall’esistenza o meno di dio. Tutto questo ha a che fare solo con la Chiesa e con la religione: con un potere e con una necessità atavica dell’umanità nel ricercare un briciolo di serenità in una utopia ultraterrena che magari esiste pure, ma che qui, da oltre duemila anni, è – al pari di altre religioni – soltanto un modo per asservire coscienze e conservare i privilegi di pochi a danno dei diritti e della dignità davvero universale di ogni essere vivente. Non solo degli umani.

MARCO SFERINI

9 aprile 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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