Penso sempre a Gaza. Sì è vero mi alzo, esco, faccio le mie cose e penso sempre a Gaza.

Più cose faccio più penso a Gaza. Se apro il rubinetto penso a Gaza che non ha acqua, se mio figlio ha la febbre penso a Gaza che non ha medicinali, se viene una scossa di bradisismo penso che a Gaza esplodono bombe.

Quando ad Adania Shibli fu sottratto il premio letterario che le era stato assegnato a Francoforte mi chiesero di scriverne, io dissi no, che non lo sapevo fare. E sono contenta, perché Giuliana Sgrena ne scrisse benissimo. È che non avevo le parole e neppure adesso le ho, se non che: penso a Gaza.

Sono andata via una decina di giorni dal mio social, x, perché cinquecento palestinesi erano morti in ospedale, e io ho scritto solo «L’ospedale» e sotto hanno iniziato tutti a dire è stato Hamas è stato Netanyahu e io pensavo solo a Gaza, in termini troppo elementari per dire qualcosa di sensato, come sto facendo ora.

Quello che sapevo di certo è che volevo rispettare il lutto.

Quando muoiono le persone si fa silenzio, dopo si capiranno le colpe, dopo ci sarà o meno giustizia ma intanto, intanto bisogna piangere. Ora sono passati dieci giorni in cui ho solo controllato che ogni giorno fosse vivo un giovane insegnante palestinese che sta lì, a Gaza, mi bastava leggere I’m still alive, e spegnevo.

Sono andata in spiaggia, qui difronte c’è la spiaggia de La dismissione di Ermanno Rea, che è stato il mio maestro, ma più in senso politico che in senso letterario, o tutt’e due, perché io non mi fido di quelli che si chiamano fuori. Abbiamo parlato di due cose a mia memoria: dei detenuti e di Gaza.

E sulla spiaggia c’era un medico che conosco: quest’estate era triste e io gli avevo detto che la vita è insensata e di non perdere tempo a cercarle un senso. Quando l’ho reincontrato allora finalmente ho parlato, gli ho detto: «Penso sempre a Gaza. Ogni cosa che faccio mi serve per distrarmi eppure non serve perché io lo so che lì dietro c’è Gaza».

Mi ha risposto che anche il mio dolore sembra in fondo una ricerca di senso, un senso universale palingenetico e quindi che lui avrebbe potuto dirmi uguale: questo senso non c’è. «Prova a scriverne magari ti aiuta a trovare la lucidità».

E no, non voglio trovarla la lucidità. Perché devo costringermi al rigore? È l’unica posizione da tenere mentre si compie il genocidio dei palestinesi? Mentre fanno deserto delle loro vite, della loro esistenza, assediati come nelle alte mura di Ilio? No, io voglio piangere, piangere è il gesto. E lo so che ma allora anche, lo so che non è la prima volta né l’unico popolo, lo so. Ma a volte, a volte, a volte non si può che pensare sempre a Gaza come si pensa a Amleto, così: terrorizzati e impotenti.

Quando è morta mia madre nessuno mi ha chiesto lucidità, nessuno mi ha concesso o negato un senso. Io sto così, come quei giorni, che facevo cose e guardavo la gente al semaforo e pensavo: loro non lo sanno che io sto pensando a mamma. Non lo sanno che sto pensando a Gaza.

Pensare a Gaza vuol dire pensare a quelle scene tante volte viste dei militari israeliani che salivano per le scale dei palazzi e scacciavano i palestinesi dalle case, pensare a quegli israeliani di sinistra che per settimane hanno sfilato in piazza contro Netanyahu e a quel rave, ai terroristi senza politica e ai politici senza politica, alla violenza.

Significa pensare agli ostaggi israeliani e ciò che soffrono loro e le loro famiglie e sapere che tra di loro c’è chi pensa anche a Gaza.

Significa ricordare quel professore di storia e filosofia che diceva: l’olocausto è da pag. x a pagina y, ma vi prego studiatevelo voi perché io non ce la faccio. Ecco, lui aveva perduto la lucidità e il ruolo, non poteva spiegare: come si spiega l’inspiegabile?

Io così sento per la Palestina. Sto sempre là in mezzo a quei bambini, ad aspettare di sapere se quel giovane insegnante che non conosco è still alive. Cosa cambia? Tutto. Finché Amleto è vivo la vita va avanti. La vita è così, non si conta sui pallottolieri, i morti non si sottraggono e le vendette sono pretesti, e la parola pace ha quattro lettere, due sillabe.

Quale è la posizione dello scrittore davanti al genocidio dei palestinesi, nelle ore in cui non hanno neppure più internet affinché non si veda, affinché si scopra più tardi possibile quel deserto che sarà da domani un luogo un tempo abitato da gente viva: qual è la posizione dello scrittore? Credo che sia in ginocchio da qualche parte.

Domani mi diranno cosa c’è da spiegare gli interessi, Biden, il patto atlantico, le multinazionali, i sionisti, lo sappiamo da sempre, le bandiere, la piazza, i kibbutz.

Ma per me non è così, non ora. Ora c’è solo una porta là giù, e di qua ci siamo noi, e di lì c’è l’indicibile, che è l’unico limite di chi scrive, mica la pagina bianca: l’indicibile.

VALERIA PARRELLA

da il manifesto.it

foto: screenshot tv ed elaborazione propria