Walter Massa, 50 anni, da una settimana è il nuovo presidente della storica organizzazione: quasi mezzo milione di iscritti anche coi circoli chiusi causa pandemia. È anche il primo presidente ad aver cominciato il suo percorso quando il Muro di Berlino era già caduto. Viene da Genova, e proprio dalle giornate del G8 del luglio 2001 dice di aver tratto la spinta per interpretare i tempi che stiamo vivendo. «Per molti della mia generazione è stato importante – dice – Mi ha spinto a scegliere l’impegno politico in rottura rispetto ad un sistema politico e a partiti che non rispondevano più a determinati bisogni e avevano una una lettura arretrata di quello che stava accadendo».

Fu una svolta?

Si arrivò a Genova con gran parte della sinistra del tutto impreparata a capire di cosa si trattasse. Noi abbiamo colto molte cose perché ci siamo messi in discussione e abbiamo aperto canali col mondo intero. Ecco cosa significa anche oggi «Agire localmente e pensare globalmente»: fare il lavoro sul territorio ma avere un orizzonte globale che va oltre il quartiere, la città, la nazione.

Al congresso ha parlato di un cambio di paradigma: se prima eravate espressione di una comunità che già esisteva adesso dovete costruirla, quella comunità.

Quando nacquero le case del popolo, le società di mutuo soccorso, i circoli c’era una comunità e c’era bisogno di servizi e socialità. Ormai siamo in una fase in cui la comunità si è totalmente disgregata, l’egoismo sociale ha preso il sopravvento. Per questo ho provato a metter al centro il tema della solitudine delle persone, ciò che crea paura egoismo razzismo. Laddove ci sono i luoghi della socialità si prova a ricostruire una comunità di persone. Se lo mettiamo a fuoco cambia il paradigma della nostra utilità, anche il modo in cui guardiamo a noi stessi.

E il modo in cui vi rapportate alla politica ufficiale.

Dopo la pandemia ci siamo trovati ad avere a che fare con un pezzo di classe politica anche vicina a noi che non avevano idea di cosa facessimo concretamente. Lì abbiamo capito che non conoscono il presidio di territorio che svolgiamo, si tratta di quel welfare di prossimità che può far cambiare prospettiva alle amministrazioni sull’utilità dei circoli.

Nel frattempo è scomparsa anche la sinistra.

Ha perso il radicamento territoriale e il legame con le comunità che la rendevano credibile. Anche in questo senso siamo utili: possiamo costruire quel terreno su cui far rifiorire la credibilità di una serie di valori di sinistra che ci sono, rimangono e devono rifiorire in modo diverso. Non è casuale che le prime due manifestazioni con la destra al governo ci abbiano visti come protagonisti: quella contro il rinnovo degli accordi con la Libia e la piazza per la pace. Mettersi in quest’ottica significa assumersi una maggiore responsabilità politica: meno convegni sul senso della sinistra e più azione sul territorio.

Si tratta di cambiare prospettiva?

Si apre una nuova fase: non siamo spaventati dal governo di destra, per noi rappresenta un motivo in più per svolgere un ruolo politico e associativo, per avere un ritrovato ruolo di maggiore e pari dignità. Mettiamo a disposizione dei luoghi in cui ricomporsi su cose concrete. E di cose concrete ne vogliamo porre tantissime, sia a livello territoriale che nazionale.

Intanto la riforma del terzo settore rischia di escludervi.

Svolgiamo tutta una serie di servizi per la comunità, ad esempio per l’accoglienza. Ma siamo consapevoli che in un paese normale non dovremmo essere noi a sopperire alla mancanza dello stato. Penso a tutto il lavoro che facciamo con la terza età, la disabilità, in carcere. Questa carenza del pubblico non è diminuita: è aumentata. E allora bisogna porre dei paletti non possiamo andare verso un sistema di welfare privatizzato. Lo stato deve avere un ruolo.

Per questo al congresso ha detto che non siete operatori sociali ma cittadini che si auto-organizzano?

La riforma del terzo settore sta mettendo in crisi lo stesso sistema che raccontavo prima. Se uno vuole occuparsi dei bisogni della comunità non può passare la giornata a fare il piccolo notaio, il commercialista e l’avvocato mentre lo stato ci equipara nel migliore dei casi a un pubblico esercizio commerciale. Non possiamo prenderci le pacche sulle spalle per il mutualismo ma poi nostri soci e i circoli che operano sulla comunità poi devono soccombere alla burocrazia. Per questo rivendico che non siamo operatori sociali, siamo cittadini che fanno il bene della comunità attraverso la cultura, il sociale. Lo stato decida cosa vuole dall’associazionismo, noi diciamo che così non può andare avanti.

Andrà a Bruxelles a porre al commissario Paolo Gentiloni la questione dell’Iva per i circoli Arci?

Ecco, questa è un’altra distorsione. Un anno fa abbiamo ottenuto la sospensione dell’Iva per l’associazionismo. Ma da una parte ci si vuole far pagare come qualsiasi attività commerciale o impresa sociale, dall’altra come è accaduto per i ristori riceviamo trattamenti di serie b. L’articolo 18 della Costituzione sancisce diritto delle persone ad associarsi ed auto-organizzarsi, tutto ciò non può passare sotto la lente della schizofrenia dello stato. E in questo caso non ne faccio una questione di governi.

GIULIANO SANTORO

da il manifesto.it

Foto tratta dalla pagina Facebook di Walter Massa