Corruzione endemica (globale) e fragilità europea

Qualcuno un tempo teorizzava così: a grande istituzione grande corruzione. Mi era sempre parso improprio stabilire un criterio tanto universalmente diretto, perché le vie del malaffare sono infinite, indescrivibili...

Qualcuno un tempo teorizzava così: a grande istituzione grande corruzione.

Mi era sempre parso improprio stabilire un criterio tanto universalmente diretto, perché le vie del malaffare sono infinite, indescrivibili fino in fondo, non incasellabili con certezza dentro un rapporto così stringente tra chi offre denaro per comprare la volontà altrui e chi lo accetta per distorcere gli iter normali delle burocrazie, le volontà politiche determinate dal voto o chissà che altro, al fine sempre di trarne comunque un duplice vantaggio: di sostanziale tenuta delle posizioni per il proprio partito o per sé stessi e di favore economico per chi è nel ruolo del corruttore.

Continuo a pensarla così che, nonostante il “Qatargate” e quello che sta avvenendo al Parlamento europeo, a grande corruttore non debba per forza corrispondere un altrettanto grande corrotto. Ma, oggettivamente, qualche dubbio in più viene.

Perché, se si esclude la casualità, che in questi casi è veramente impossibile da riscontrare, uno Stato che tenta di penetrare nella più democratica istituzione continentale per trarne dei favori dal punto di vista della compiacenza, delle relazioni internazionali e, quindi, dopo l’esperienza dei mondiali di calcio, prova (probabilmente ci riesce anche) ad indirizzare le politiche dell’Europarlamento a proprio vantaggio, più che una equipollenza nel rapporto di corruzione, ci parla di una vera e propria sproporzione.

Viviamo nell’era delle transazioni bancarie in mille modi gestibili, con tracciamenti di tutti i tipi, con occultamenti dei più diversi, con prestanome di conti e azionariati. Eppure, chi si è fatto corrompere e ha ricevuto i soldi, li ha tenuti in casa propria o negli uffici dentro sacchi e sacchetti. Non ha affatto torto chi ha stabilito un paragone, veramente iconicamente evocativo, con i puff e gli armadi pieni di lire dell’epoca tangentopolizia del nostro Paese.

Allora gli avvisi di garanzia piovevano ogni giorno sopra le teste e sulle spalle dei dirigenti dei più grandi partiti italiani, soprattutto di quelli che formavano il Pentapartito, il nucleo di maggioranza e di governo.

La stagione delle mazzette era arrivata al suo capolinea: almeno quello conosciuto fino ad allora. Si pensava che il pool di Mani Pulite avesse messo fine non solo ad un rapporto intrinsecamente perverso tra pubblico e privato, tra industriali e politica, ma alla corruzione propriamente detta, che aveva attraversato secoli e millenni.

Dalle scalinate di marmo del Senato della Roma repubblicana e imperiale ai più recenti palazzi del potere, il rapporto di corruttela è congeniale al sistema economico dominante, ai rapporti che la classe dominante intende stabilire proprio con la rappresentanza istituzionale.

Chi ha il controllo economico (ed oggi anche finanziario) della società, degli scambi internazionali e, quindi, rappresenta in solido le dinamiche capitaliste, perché capitalista è, perché grande azionista di imprese di Stato privatizzate è altrettanto, intende la politica esattamente come “sovrastruttura” della propria impresa, del proprio ruolo di proprietario dei meccanismi produttivi e, quindi, la utilizza in ogni modo possibile per dirigerne le decisioni nel più favorevole contesto che si viene a creare proprio grazie alla distorsione della volontà popolare.

Quando il livello della corruzione raggiunge elevazioni che sovrastano gli Stati nazionali e, nello specifico, riguarda patti associativi, quasi confederali, come l’Unione Europea, ad entrare in fibrillazione sono tutti i governi che ne fanno parte, perché una crepa negli equilibri precari di un sistema monetario già fragile rischia di compromettere non solo la credibilità di quelle istituzioni continentali ma, soprattutto, i sottili fili che tengono insieme un gigante di argilla.

La sopravvalutazione della stabilità dei grandi agglomerati politici, istituzionali e, per questo, anche economici che si contendono la scena mondiale, con alterne vicende, con altrettanto alterne alleanze, composizioni e scomposizioni frutto di una velocità di mutamenti geopolitici impressionante, sta tutta (o quasi) nel ritenere ingenuamente che il rapporto tra politica ed economia sia unidirezionale e che la prima debba per forza indirizzare la seconda.

Non si tratta di imporre una analisi marxiana dei rapporti di forza tra la classi, di una dialettica istituzionale per forza eterodiretta dagli interessi privati a tutto tondo, ma semplicemente di prendere atto di quello che avviene e che non può essere smentito: la democrazia, per quanto sia il più accettabile dei sistemi di governo, non è autogoverno dei popoli e, tante volte, nemmeno certezza che la delega che questi assegnano alle forze politiche si traduca esattamente nella volontà che esprimono col suffragio universale, con la libertà di voto.

La soluzione delle destre, almeno fino a poco tempo fa, quando in Italia si tentavano colpi di Stato nel nome dell’anticomunismo e del ritorno ad un nazionalismo guidato da un misto di militarismo e conservatorismo atlantista, era quella di mettere da parte sostanzialmente le funzioni costituzionali e lasciarne solo quel tanto di forma che permettesse di avere de jure una repubblica democratica e de facto un regime autoritario e repressivo.

Oggi, la modernità dei sovranisti, tutt’altro che da accogliere come conversione positiva ad un liberalismo istituzionale che profumi di eguale partecipazione alla vita dei corpi politici e di quelli intermedi, depreca qualunque dimagrimento della democrazia tanto nazionale quanto continentale. Condanna la corruzione che minaccia l’impalcatura europea e si dice pronta a fare la propria parte in ogni dove per solidificare quegli apparati che hanno mostrato una permeabilità alle intromissioni estere, al condizionamento sostanziale dei rapporti parlamentari.

Possiamo affermare che lo scandalo è oggi, e sarà domani, un insegnamento per le classi dirigenti dell’Unione? Se ci fermiamo ad un piano meramente etico, forse sì. Ma la morale e la disciplina personale, l’incorruttibilità non sono tema per un sistema che esercita le sue pressioni ogni giorno nei confronti delle istituzioni per uscire meglio da crisi e confronti concorrenziali altrimenti più complicati del previsto.

Questo non vuol dire  affatto che la democrazia sia inutile o che lo siano le istituzioni elette dai popoli. Ogni banalizzazione e riduzionismo del valore, assunto nel corso dell’evoluzione socio-politica umana, soprattutto negli ultimi secoli, dall’istituto democratico va preservato. Ma è l’avviso permanente a non confidare soltanto nella capacità rappresentativa delle forze politiche, di deputati, senatori, di chiunque si trovi dentro i gangli di un potere.

Sono gli interpreti della democrazia ad essere oggetto di speciale osservazione e non la democrazia in quanto tale. L’incompatibilità tra questa e il capitalismo, tuttavia, è evidente. La convivenza non crea disagi al sistema delle merci e dei profitti ma, semmai, soltanto a quanto la democrazia vorrebbe poter rappresentare a pieno titolo, persino andando oltre l’originaria accezione ellenica e diventato il prodromo di una partecipazione dal basso che escluda le influenze del capitale, le reti corruttrici e le meschinità private a tutto discapito dell’interesse comune.

Per questo, il cosiddetto “Qatargate“, dentro l’Unione Europea, è un sintomo di una malattia ben più grande, ben più diffusa e radicata. Ridimensionarne l’impatto che avrà, soprattutto se l’inchiesta dei magistrati belgi si allargherà, riducendolo ad un caso episodico sarebbe fuorviante. La lotta alla corruzione è, principalmente, lotta contro un regime di relazioni tra politica ed economia che vanno alterate alla radice: non si possono avere incertezze in merito.

Ogni compatibilità, ogni compromesso con il sistema è, seppure indirettamente, una accettazione del principio che i soldi possono comperare tutto. Un rigurgito di giacobinismo può essere utile al proposito. Senza più ghigliottine, ma con la convinzione che l’uguaglianza è il principio fondante della democrazia, a differenza del rampantismo liberista che contribuisce alla solidità strutturale dei privilegi di classe.

Farlo capire ai cosiddetti “socialisti europei” sarebbe già una grande conquista politica. E forse anche sociale…

MARCO SFERINI

13 dicembre 2022

Foto di eberhard grossgasteiger

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