La favola della “democrazia” da difendere e gli effetti della guerra

La “buona politica occidentale“, quella di contenimento dell’imperialismo putiniano, dell’espansionismo oligarchico russo, del fronteggiamento dei nuovi regimi autocratici e autoritari dell’est e del lontano oriente a trazione cinese, viene...

La “buona politica occidentale“, quella di contenimento dell’imperialismo putiniano, dell’espansionismo oligarchico russo, del fronteggiamento dei nuovi regimi autocratici e autoritari dell’est e del lontano oriente a trazione cinese, viene presentata dai quotidiani e dalle televisioni (e da tanta parte del mondo internettiano) come la sola possibile per dare all’Europa e al pianeta una nuova stabilità tra le sponde opposte dell’Oceano Atlantico e tra quelle pure del Pacifico.

Il racconto etico-politico, che viene sciorinato ogni giorno dalle pagine dei giornali che sostengono l’intervento militare e l’armamento a più non posso dell’Ucraina baluardo dei valori democratici contro il Satana moscovita, fa sempre più a pugni con una realtà dei fatti che ci sta mostrando una guerra di lungo periodo.

Da un lato un impatanamento delle strategie militari russe tra l’avanzata nel Donbass e le controffensive ucraine a sud, che significa anche consunzione economica per Mosca, incertezza politica per Putin; dall’altro lato un’Europa sempre meno autonoma dagli Stati Uniti d’America, capace solamente di avviare un percorso burocratico di adesione di Kiev alla UE con una serie di precondizioni necessarie che, se lette attentamente, mostrano ciò che Bruxelles vuole da Zelens’kyj: garanzia prettamente economico-finanziarie.

Mentre Biden continua ad utilizzare il campo militare ucraino per rafforzare l’egemonia americana in Europa, ampliando la NATO ad Est e quindi giocando una doppia partita strategico-politica, l’Occidente si illude, o quanto meno finge di illudersi, di stare davvero combattendo, seppure per procura, una guerra per la libertà e la democrazia. Quella democrazia che in Ucraina non è mai stata pienamente tale e che tanto meno lo è in Russia.

Due imperialismi si sono guardati a lungo, hanno cercato il pretesto per misurarsi sul campo, per rimettere soprattutto in discussione i vecchi assetti geopolitico-economici, lascito della Guerra fredda, e grazie alla crisi del Donbass sono riusciti ad arrivare al duello, alla tenzone, visto che con le tattiche diplomatiche e con le schermaglie a distanza non si riusciva a mettere fine al grande dilemma dei tempi attuali: quale potenza avrebbe riconquistato uno spazio pressoché globale in cui espandersi e tornare ad essere la “guida” del mondo?

Vladimir Putin ne ha parlato al Forum economico di San Pietroburgo in modo enfaticamente esplicito: toni da propaganda, principalmente rivolti a Washington, ma pure ad una Europa che, mai come adesso negli ultimi trent’anni, è stata così subordinata ai dettami dell’asse nord-atlantico in diretta connessione con la Repubblica stellata.

L’enfasi deve far parte del discorso di un presidente di guerra, di guerra di aggressione che, tuttavia, è stata cercata anche da un Occidente con tutti gli interessi del caso a fronteggiarsi su un terreno apparentemente contendibile tanto ai valori democratico-euro-americani quanto alla millenaria storia che prende il via con la Rus’ di Kiev.

Putin ha scelto di ingaggiare i combattimenti in Ucraina perché i fronti aperti nel corso degli anni, dall’annessione della Crimea alla ribellione delle repubbliche secessioniste di Lugansk e Donetsk, erano propizi al giustificazionismo da mettere sul piatto della bilancia politica interna e anche per creare un minimo alibi sulla scena mondiale.

Sovente nella Storia dell’umanità i pretesti di espansione imperiale sono strettamente legati a ragioni di presunta sopravvivenza di un popolo piuttosto che alla vera ragione: il consolidamento economico di un paese, la sua potenza sulla scena quanto meno continentale, le sue relazioni estere da riconsiderare da una posizione di forza che sia non soltanto leva per una trattativa post-bellica vincente, ma fondamentale base di costruzione di una egemonia duratura negli scambi tanto politici quanto commerciali, quindi nella considerazione in cui gli altri paesi dovranno tenerlo.

E precisamente questo sta facendo l’America democratica di Joe Biden, più ancora dell’autocrazia di Putin: gli Stati Uniti stanno facendo la guerra con l’interposta persona del popolo ucraino, hanno trasformato quella nazione in un Afghanistan di nuovo modello, non hanno un battaglione che sia uno sul campo, quindi non possono subire perdite e non rischiano contraccolpi con l’opinione pubblica che, del resto, sente questa guerra molto lontana e non solo geograficamente.

Ma, di concerto con la NATO, hanno ispirato una politica di corsa all’armamento per tutti i paesi che sono vicini alle frontiere dell’Est europeo, non hanno frenato nessun tentativo di espansionismo dell’Alleanza, ritenendo magari che potesse essere un presupposto a cui Putin avrebbe potuto aggrapparsi – anche con qualche ragione – per continuare la guerra, per estenderla con una escalation imprevedibile.

Al contrario, hanno osservato per una ventina di giorni le mosse russe e hanno deciso, a fine marzo, che era il momento di sbandierare la difesa dell’unità, dell’indipendenza e della democrazia ucraina come vessilli per giustificare l’invio di armamenti sempre più complessi e moderni.

Tanto complessi e tanto moderni che gli ucraini hanno persino lamentato una impreparazione oggettiva nell’utilizzo di certi droni e certi obici mai visti prima.

Il bugiardo attaccamento sociale e civile americano e nord-atlantico per le sorti dell’Ucraina, dietro cui si celano – nemmeno tanto occultamente – i veri interessi imperialisti di natura prettamente economica e finanziaria, ha ridotto l’Europa a non avere nemmeno più la parte della mediatrice tra questi due blocchi che si fronteggiano sulla pelle del popolo di Kiev. La sortita di Draghi, Macron e Scholz, presentata come un grande successo diplomatico e politico, è servita mediaticamente ma ha aggiunto davvero molto poco al cammino di apertura di una trattativa di pace seria, da contrattare prima con Washington e la NATO e poi con Putin.

Ma, a Zelens’kyj che non  smette di chiedere armi per fronteggiare l’offensiva russa nel Donbass, i tre leader hanno risposto dicendo che erano lì solo per discutere dell’eventuale ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea. Niente di più e niente di meno. Le garanzie sul sostegno alla risposta armata all’invasione russa sono di prammatica. Resta il fatto che la risposta di Putin è stata il taglio delle forniture di gas a Germania e Italia: del 63% nel primo caso, del 50% nel secondo.

La sicurezza che le sanzioni nei confronti di Mosca stiano avendo quell’effetto che si auguravano lor signori, sta venendo meno molto velocemente: che la Russia sia in difficoltà economica è evidente, ma il nostro mondo occidentale come sta dopo quasi quattro mesi di guerra.

Sappiamo che dovremo affrontare un autunno tremendo, fatto di recessione, di inflazione e forse pure di stagnazione economica. Sappiamo che il prezzo del gas andrà alle stelle (e ora non sta certo alle stalle…) e che, di pari passo, salirà anche quello dell’elettricità. Sappiamo che siamo ancora lontani dal vedere gli effetti della guerra sul costo della vita. E sappiamo che la politica europea per contenere questi effetti negativi, soprattutto per le persone meno abbienti e i ceti più fragili, sarà una politica volta a tutelare i grandi patrimoni e, sostanzialmente, il mondo delle imprese ma non quello del lavoro.

Le ripercussioni economiche e sociali della guerra non sono e non saranno uguali per tutti: si spanderanno sulla popolazione esattamente con un effetto inflattivo tipico delle imposte indirette. Dall’IVA alle accise, dai carburanti quindi fino alle materie prime come il grano e, quindi, la farina, e quindi il pane e i tutti i suoi sostitutivi.

La qualità della vita, o sarebbe meglio dire della “sopravvivenza“, di decine di milioni di persone calerà bruscamente e, mentre americani e russi continueranno a fronteggiarsi in Ucraina, e questo scenario di aumento della povertà costituirà l’incostanza strutturale dei prossimi anni se la guerra non sarà fermata, se il capitalismo liberista interpretato dai governi europei e da Washington non metterà un freno al proprio espansionismo, alla sua fase imperialista moderna togliendo così anche l’alibi a quello putiniano per rivendicare nuovi spazi di agibilità militare ed economica.

Siamo nell’orribile mezzo di una contesa mondiale che i giornali ci raccontano con la favoletta semplicistica e banalizzante dello scontro esclusivo tra Kiev e Mosca. Alle favole si può credere, ma poi ci si deve confrontare con la realtà. E questa non ha di certo il volto delle parole tiepidamente rassicuranti di Mario Draghi sulla ricostruzione totale di una Ucraina che, intanto, continua ad essere distrutta, e sulla tenuta di una economia italiana ed europea che, tra i mezzi sorrisi di Putin a San Pietroburgo, invece scivola nell’incertezza più drammatica.

MARCO SFERINI

18 giugno 2022

Foto di Art Guzman

categorie
Marco Sferini

altri articoli