Il liberismo spinto di governo e l’anno peggiore che verrà

Marco Travaglio l’ha definita una “discarica“: precisamente questo è la manovra economica del governo Meloni. Un luogo immateriale, fatto di un dossier che mette nero su bianco tutti gli...

Marco Travaglio l’ha definita una “discarica“: precisamente questo è la manovra economica del governo Meloni. Un luogo immateriale, fatto di un dossier che mette nero su bianco tutti gli interventi previsti, che oggi, diventeranno legge dello Stato, dal disvalore veramente impattante sulle fasce più indigenti della società italiana.

Vi è stato gettato di tutto in questa discarica abusiva della destra di governo, consentendo, da lontano, da una collina più alta, di sbirciare la fisionomia dell’insieme che è marcatamente classista. Si va dalla veloce abolizione del reddito di cittadinanza all’assenza di un qualsiasi intervento rilevante sugli ambiti sociali, su quella rete di diritti fondamentali che spaziano dalla scuola alla sanità, dalla tutela dei diritti pensionistici acquisiti alla cautela con cui si dovrebbe maneggiare il patrimonio infrastrutturale e naturale del Paese.

La finanziaria dell’esecutivo nero è di chiaro segno padronale, imprenditoriale, finanziaristico e liberista. Cautela le società calcistiche grandi, quelle che hanno un arretrato di versamenti nei confronti della fiscalità pubblica cumulati ben prima del Covid e che, grazie alla pandemia, si sono visti congelare il debito cumulato: è una cifra spropositata che corrisponde, grosso modo, al taglio sul reddito di cittadinanza.

La manovra è classista nel peggiore degli intenti compresi da questo termine che bene descrive la volontà di privilegiare pochi e penalizzare in una indistinzione di massa che fa fuoriuscire quasi sempre una opportuna guerra tra i poveri.

Tuttavia, alcune settimane fa, Confindustria lamentò una certa inadeguatezza della legge di bilancio appena appena tratteggiata: persino i padroni italiani erano scontenti per una politica troppo rivolta all’aspetto della finanziarizzazione dell’economia moderna nel Bel Paese piuttosto che alla grande e grandissima industria nazionale.

Incredibile a leggersi, la nuova borghesia imprenditoriale, non molto cambiata rispetto a quella che si interfacciava con i governi di Letta, Renzi, Conte e Draghi (vista la impressionante successione di esecutivi in uno stretto giro di poche legislature), esigeva, per garantire una crescita degna di questo nome, che una parte dei tagli prevedibili (circa 16 miliardi di euro) ad un bilancio dello Stato già magro e impoverito dalla pandemia, andasse a favore del lavoro dipendente.

Nessun timore, nessun stupore. I padroni sanno che senza un adeguamento del potere di acquisto dei salari la domanda cede terreno di fronte ad una offerta che rischia, quindi, di stagnare e lo spettro della stagflazione si erige prepotentemente davanti, ovviamente prima di tutto ai ceti più indigenti, ma pure all’espansione dei commerci, alla circolazione dei capitali, alla ristrutturazione di una economia pesantemente infiacchita dalla pluralità dei fattori di crisi che si sono venuti avvicendando e sommando dal 2020 ad oggi.

Ancora a metà dicembre, il presidente degli imprenditori, Carlo Bonomi, richiamava il governo a non sottovalutare questa legge di presunto virtuosismo del mercato e del capitalismo italiano: la debolezza del sistema delle aziende oramai non veniva individuata soltanto dall’impennata dei costi fissi di produzione (dal rialzo esponenziale del prezzo di gas, energia elettrica, manuntenzione degli impianti, acquisto delle materie prime, indotto e filiera di distribuzione) ma anche da un indiretta conseguenza del capitale variabile (quindi i salari).

Preso atto che da oltre un decennio le retribuzioni dei lavoratori dipendenti sono tra le più basse dell’intera UE (la paga oraria media lorda in Italia è di 15,55 euro, a fronte dei 16,09 euro della media europea, dei 19,66 euro della Germania e del 18,01 della Francia – i dati sono riferiti al 2021 e sono stati elaborati da Eurostat), Confindustria non ha potuto non mettere in rilievo note in cui si sollecitava il nuovo governo ad intervenire in merito: il taglio del cuneo fiscale avrebbe dovuto essere distribuito diversamente. Persino per gli imprenditori.

Il governo non ha seguito le indicazioni padronali di destinare 2/3 delle risorse a favore dei lavoratori e 1/3 a favore delle imprese.

Ha dato alla manovra economica una fisionomia ancora più liberista, abbandonando una dualità di intervento che tenesse in conto l’esigenza di creare un minimo di riassorbimento della domanda attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro richiesti dal mondo imprenditoriale come necessità strutturale, come imprescindibile punto di partenza per garantire al capitalismo dello Stivale una boccata di ossigeno in mezzo all’economia di guerra, in mezzo alla ridefinizione della geopolitica mondiale.

Persino il governo Draghi, logicamente smaccato nei confronti delle ovvie esigenze internazionali e continentali della grande finanza, aveva messo un occhio di riguardo alla protezione dei capitali nazionali e del regime di impresa “locale” dentro il contesto europeo. Del resto, chi meglio di un banchiere poteva dare sicurezze ambivalenti, creare quella sensazione di solvibilità tanto alla finanza quanto all’industria propriamente tale?

Ma la percezione che di tutto questo si ha oggi, a poche ore dall’approvazione della legge finanziaria, è che il governo di Giorgia Meloni non sia stato in grado di rappresentare, almeno in questo solco, forse quello più importante per le classi agiate italiane e per le garanzie da dare a Bruxelles e Francoforte, quella esatta continuità che si era ripromesso di mantenere con le misure indirizzate all’autunno da Draghi poco prima di abbandonare Palazzo Chigi.

Lo zampino del compromesso costante, in una maggioranza unita elettoralmente ma non così coesa nella difesa dei privilegi dei ceti sociali che da sempre rappresenta, è la ragione più evidente di questa discrepanza, di una serie di capitoli di spesa che non si sono ingrossati perché le risorse sono state dirottate quasi tutte ad un contenimento di un costo energetico che, tuttavia, non viene protetto dai rincari successivi al prossimo marzo dalle grandi aziende distributrici di gas e luce.

Anche in questo caso, mentre Draghi aveva preso in considerazione una briciola di pseusdo “pace sociale” in merito, allungando i tempi del blocco degli aumenti dei canoni in bolletta, una non-alterazione ulteriore di una povertà comunque crescente, mettendo così una ipoteca assicurativa sul futuro dell’instabilità economica italiana in un 2023 in cui si era ormai certi che la guerra in Ucraina continuasse, che l’inflazione crescesse e che i poveri assoluti diventassero quasi 6 milioni (dai 5 milioni e mezzo attuali…), il governo Meloni lo smentisce.

Dal marzo prossimo la prorogra sarà avanzata solo fino a giugno e poi le grandi distribuzioni di energia potranno, previo avviso trimestrale, riadeguare i costi e quindi aumentare il divario che tutt’ora si allarga tra potere di spesa dei salariati e sostenibilità dei bisogni fondamentali di sussistenza quotidiana.

La questione perenne dell’intervento sul fisco, poi, aggrava questo quadro di incertezza capitalistica, di un aziendalismo orfano di un governo che ne comprenda appieno il ruolo nel contesto globale dell’alta finanza speculativa.

Confindustria reclamava qualche settimana fa tassazioni maggiori per la galassia finanziaria e un minore impatto delle imposte su quella imprenditoriale. Una visione di classe che non affranca i lavoratori dal peso della crisi, ma che intende redistribuirlo per avvantaggiarsi proprio in termini di concorrenzialità e di messa in sicurezza dei profitti.

Il testo definitivo della manovra di bilancio non capovolge i presupposti iniziali: scontenterà ancora i signori di viale dell’Astronomia, getterà le immediate basi per un peggioramento della condizione dei lavoratori, dei pensionati, degli studenti e di quelli che cercano di barcamenarsi con salari da fame, immersi nella melma della precarietà, privi di qualunque speranza di avere garanzie maggiori rispetto al recente passato.

Il reddito di cittadinanza, piccola ciambella di salvataggio, è stato messo in scadenza e le tassazioni indirette non sono state rimodulate.

La condizione economica e sociale di milioni di italiani peggiorerà, mentre Meloni e i suoi ministri andranno avanti col tutelare un ceto medio che gli garantisce un bacino elettorale notevole, una grande finanza che sostiene l’opera di governo nei rapporti internazionali nel confronto tra l’Italia a il resto del mondo polarizzato in grandi centri di sviluppo economico, un mondo industriale al quale comunque vengono fornite ampie garanzia in quanto a sfruttamento della forza-lavoro sempre più in competizione nel bacino vasto del disagio sociale che cresce.

Molti commentatori riprendono vecchi schemi considerati “ideologici” e terminologie come “classimo“, “lotta di classe“, “contrapposizione capitale-lavoro“… Fa piacere, da un lato, che si accorgano dell’esistenza di ciò che non è mai venuto meno, nonostante la narrazione liberista della fine della storia umana, del limitare su cui saremmo giunti senza più uno sviluppo dialettico tra le differenti condizioni socio-economiche. Ma è anche il segnale di una pericolosa regressione che ci riporta, per l’appunto, indietro di tanto tempo…

Prima che alcuni diritti fossero tali, prima che si desse, troppo facilmente, per scontato che sarebbero stati intoccabili. Il contenuto della manovra del governo Meloni, caso mai ve ne fosse bisogno, è la dimostrazione che non era, non è e non sarà così…

MARCO SFERINI

29 dicembre 2022

Foto di Pixabay

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