Il “bene comune” e la singolare interpretazione delle norme

Le priorità di una collettività, dunque il bene comune, rischia spesso di non essere in sintonia con le priorità singole, del cittadino che compone la massa popolare e che...

Le priorità di una collettività, dunque il bene comune, rischia spesso di non essere in sintonia con le priorità singole, del cittadino che compone la massa popolare e che non dovrebbe scindersene con comportamenti che alterino il quadro di disposizioni doppiamente utili. Eppure questa asintonia non è ascrivibile esclusivamente ai capricciosi egoismi di una persona piuttosto che di un’altra: esistono responsabilità che sono di chiara matrice istituzionale e che, proprio in questo lungo anno pandemico, sono emerse vistosamente e si sono imposte all’osservazione anche dei più distratti in materia di rapporti interni, tra i vari livelli di amministrazione e gestione della Repubblica e dei suoi Enti locali.

Non è, del resto, affatto semplice stabilire il grado di incidenza – in una economia del vivere sociale e civile in questi tempi – delle ostinazioni singole versus i dettami dei decreti e gli inciampi e vivacchiamenti di una macchina amministrativa carente di coordinazione tanto propria quanto nei confronti della cittadinanza: a partire dal sistema di comunicazione delle norme e del rispetto delle medesime.

Per questo, mentre viene approvato il nuovo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (famigerato l’ormai celebre acronimo DPCM), riprende vigore il tema dell’applicazione di una serie di predisposizioni normative che non lasciano adito ad interpretazione, mentre sulle notissime “raccomandazioni” ci si potrà sbizzarrire a piacere. Largo ai social e alla tempesta emotiva dettata da circostanziati ragionamenti, ma purtroppo, nella stragrande maggioranza della casistica, da una serie di cialtronesche presunte opinioni in salsa di insulto, di anatema e di esecrazione per parte politica, per antipatia personale, per frustrazione latente, per indisciplina modaiola che pretenderebbe di essere vero ribellismo.

Il governo ha deciso una stretta maggiore rispetto a quanto si poteva prevedere: nessuno spostamento da regione a regione tra il 21 dicembre al 6 gennaio; divieto di oltrepassare i confini comunali nei giorni di Natale, Santo Stefano e di Capodanno; mantenimento della chiusura totale serale dalle 22.00 alle 5.00; più tutta una serie di raccomandazioni su cene private, ricongiungimenti familiari e festeggiamenti che spetterà alla coscienza di ognuno mettere rigorosamente in pratica.

Ed è proprio qui che si apre la voragine tra norma e raccomandazione, tra imposizione e richiesta, tra dettame e suggerimento. Sempre per il bene comune, per quella “salus publicae” che dovrebbe continuare ad essere, soprattutto in tempi di pandemia, veramente la “suprema lex“.

Non appena alcune regioni sono passate dal colore rosso ad arancione o da quello arancione al giallo, non solo le norme, ma prima di tutto le raccomandazioni sono state quasi completamente eluse dalla popolazione che ha voluto respirare, darsi ad una libertà che indubbiamente le mancava: non si tratta di profittare di una situazione per attribuirsi chissà quale vantaggio. Si tratta di un legittimo propendere a riappropriarsi di una fetta di vita, mantenendo le precauzioni fondamentali ma tralasciando una riflessione sull’opportunità di abbandonarsi al “liberi tutti” non appena la porta di camera viene aperta e non ci si vuole più sentire come il bimbo recluso in punizione dal genitore.

Ammesso che oggi – si spera –  è impensabile che un genitore chiuda a chiave nella sua stanza il figlio disubbidiente o marachelleggiante, e concesso che esistono sempre mille modi per trovare la propria invisibile chiave di evasione, la metafora può aiutarci a capire come, valutati i pro e i contro, magari velocemente paragonati “bene comune” e “benessere personale“, sfugga persino alla tenaglia dell’egoismo sempliciotto e semplicistico un istinto quasi primordiale.

Un impulso istintuale che spinge a riprendersi, molto banalmente, un po’ di mero sollievo pensando, del tutto sinceramente, di non fare del male a nessuno. Ed allora la domanda che bisogna farsi è: all’origine della trascuratezza delle raccomandazioni governative e dell’elusione delle norme, c’è la buonafede di chi ha ponderato tutto ciò o invece può esservi una buona percentuale di menefreghismo che non trova giustificazione alcuna nel sostituirsi al rispetto delle leggi e della morale civile?

Se ci riferiamo al concetto di “bene comune” è evidente che anche la più timida interpretazione legata alla buonafede cade miseramente in disgrazia, perché non dovrebbe esistere alcuna dicotomia tra significato e significante e la coincidenza tra estensione generale delle norme e applicazione del tutto particolare e singolare delle medesime, affidata al senso civico ed alla coscienza personale, dovrebbe essere un fenomeno schiettamente naturale.

La pandemia sta creando, sociologicamente parlando, un sentire comune alterato rispetto al pericolo che stiamo correndo: non si tratta della stigmatizzazione necessaria e giusta del riduzionismo e del negazionismo, due vere mortificazioni del pensiero e della razionalità affidata alla capacità di comprendere che la scienza è sì entro gli standard di un sistema che tutto mercifica e che vuole ottenere i massimi profitti a spese pure della salute dei popoli, ma che possiede una sua indipendenza di indagine.

Si tratta semmai dell’abitudine nociva ad invocare pene sempre più severe per chi trasgredisce le regole, misure restrittive che vanno oltre ogni buonsenso e oltre ogni richiesta dello stesso Comitato tecnico scientifico: la fotografia che ne fa il Censis in questi giorni è davvero impietosa. Dal ritorno in auge dell’invocazione della pena di morte (quasi il 50% degli italiani la sosterrebbe, anche se non si sa bene contro chi…) fino ad una metà dei nati a fine anni ’90 (quindi ventenni e trentenni) che ritiene “etico“, quindi giusto, che gli anziani siano curati dopo loro.

La solidarietà tra le generazioni questa volta salta su un punto di presunzione veramente “spartano“, tipico di un rigore selettivo tanto intransigente quanto disumano, indegno di un Paese civile e democratico, seppure liberale. Sono le conseguenze del prepotente ritorno di una povertà che era stata troppo velocemente dimenticata, nonostante i milioni di lavoratori precari, del neo-schiavismo subìto dai riders, del disinvestimento produttivo, di un capitalismo che non la smette di cercare l’aiuto pubblico nonostante l’emergenza sanitaria in corso.

L’abbruttimento antisociale, che emerge già oggi e che ci mostrerà una società pandemicamente modificata per sempre, avrà il volto della crisi globale del mondo del lavoro e farà i conti con una classe dirigente che, nello spaesamento generale, annasperà tra provvedimenti immediati per rimanere alla guida di un Paese con una sanità tutta da reinventare e un rapporto tra enti istituzionali da ridefinire completamente.

L’inverno italiano, europeo e di una vasta parte del mondo è appena all’inizio.

MARCO SFERINI

5 dicembre 2020

Foto di Marek Studzinski da Pixabay

categorie
Marco Sferini

altri articoli