I miliardi del governo per la Romagna: è vero sostegno?

La prontezza con cui Giorgia Meloni ha risposto al vero e proprio grido di dolore delle popolazioni romagnole, colpite dalla tremenda alluvione che ha devastato praticamente tutto il territorio,...

La prontezza con cui Giorgia Meloni ha risposto al vero e proprio grido di dolore delle popolazioni romagnole, colpite dalla tremenda alluvione che ha devastato praticamente tutto il territorio, sarebbe encomiabile, pure per la cifra destinata ai primi interventi: due miliardi di euro. Non facili da reperire nel magro bilancio dello Stato italiano, largamente impiegato per sovvenzionare l’industria degli armamenti, le spese della cosiddetta “difesa” e così poco propenso ad essere sociale, a disposizione dei veri bisogni dei più indigenti.

Sarebbe encomiabile, si diceva. Un condizionale d’obbligo, perché quei soldi andranno per la maggiore redistribuiti tra le aziende affogate nel fango (circa settecento milioni provenienti dal fondo del Ministero degli Esteri) per provare a riattivare il motore produttivo della regione, ma ancora latitano nel progetto di ricostruzione di una intera comunità, a comincare dalle abitazioni, dagli esercizi commerciali, dalle scuole, dalle strutture pubbliche e di servizio primario, una serie di miliardi che fanno impallidire i due appena stanziati dal governo.

Il governo dà poi ai lavoratori autonomi tremila euro per affrontare una tantum le prime spese: una tranche di trecento milioni che verrà distribuita in questo modo senza una ulteriore previsione di spesa. Almeno al momento.

La programmazione è sempre un capitolo organizzativo degli aiuti che ha il suono di una nota dolentissima. Ma la Presidente del Consiglio tira fuori il suo asso dalla manica con quella che definisce “una novità assoluta“: la cassa integrazione in deroga per novanta giorni con una copertura che si aggirerebbe sui cinquecentottanta milioni di euro.

Il problema è che le buone notizie finiscono qui: l’esecutivo avrà anche risposto prontamente alla tragedia alluvionale ricapitata in Romagna, parte delle Marche e della Toscana, ma, siccome le altre risorse sono già tutte destinate a tamponare una economia di guerra che esige molti fondi e non si possono ulteriormente impoverire le casse di altri ministeri, rimane per il momento il grande punto interrogativo su dove si potrà attingere per racimolare (si fa per dire…) almeno dieci, quindici miliardi di euro che – a detta del Presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini – sono il minimo indispensabile per la ricostruzione.

Parola importante: ricostruzione. Torna e ritorna nei dibattiti, nei confronti televisivi e, inevitabilmente, la accompagna tutta l’esperenzienza pregressa sugli interessi che si giocano fra loro la torta dei finanziamenti spartita con un cinismo che non ha mai eguali. Oltre alla nomina di un commissario ad acta, quello che servirebbe alla Romagna, ma in gnerale a tutti i territori della nostra Italia malandata, sarebbe una cura preventiva degli stessi.

Ci troviamo invece sempre a rincorrere il post-catastrofe, ad intervenire sulla scorta emergenze che si prolungano anche dopo che il momento più drammatico ha avuto termine. Ciò accade perché non esiste un piano nazionale di tutela dell’ambiente, del patrimonio culturale, civile e sociale della nazione.

Quanto avvenuto in Romagna, per esplicita ammissione delle stesse istituzioni sollecitate da un confronto tra scienza e politica che è diventato abbastanza franco e chiaro, perché dettato da una agenda di oggettività che sono impellenti, è il frutto avvelenato e malevolo di una congiuntura tra cambiamento climatico e inadempienza gestionale.

Il tutto è riconducibile, da qualunque punto di vista lo si voglia o si pretenda di osservarlo, alle responsabilità umane. Per settimane la politica regionale si è occupata del pericolo rappresentato dagli orsi: cataclisma dell’economia del Trentino, allontanatori del turismo, veri e propri predatori indegni persino dei peggiori film horror in tema prodotti dalla cinematografia americana.

I veri problemi di natura collettiva, che riguardano intere comunità fatte di città e di province in difficoltà economica, con una percentuale di giovani che fuggono all’estero sempre maggiore, passano in secondo piano, mentre le polemiche fittizie sopravanzano.

Il governo avrà anche risposto prontamente in questa prima fase emergenziale di una Romagna più che allagata, letteralmente sommersa in pochissime ore dalla pioggia che solitamente precipita nel corso di un intero anno, ma se vuole consolidare tutto questo e fare in modo che i miliardi promessi non divengano evanescenze nei prossimi mesi e anni, occorre – qui sì – una progettazione condivisa che, a partire proprio dalle comunità locali, arrivi fino a Palazzo Chigi con una rete di proposte che siano discusse il può possibile con la popolazione.

Si rischia altrimenti di vedere calare dall’alto dei progetti più che altro privatizzatori di nuove fette di suolo, il cui unico scopo non è il risanamento ambientale nella commistione sostenibile tra lavoro e natura, tra territorio e produzione, includendo quindi anche il rinvigorimento dello stato sociale dei cittadini, ma soltanto l’applicazione indiscussa delle esigenze del mercato e della grande industria. A scapito, oltretutto, di quelle che chiamiamo “eccellenze italiane” in ogni singola regione.

Una economia veramente sostenibile è amica dei territori (intesi come comunità socio-economiche, antropologicamente parlando), solo se a partire dagli investimenti che si progettano si mette al centro l’interesse collettivo, i beni comuni: dall’acqua alla terra, dalla natura tutta agli animali, dall’aria che si respira alle stesse città che sono la frontiera di una antropizzazione divenuta eccessiva, eccedente e debordante in ecosistemi un tempo preservati come vere e proprie oasi incontaminate.

Il governo può anche mettere a bilancio due miliardi di euro per gli alluvionati di Romagna, e certamente sono soldi che servono, ma poi, conseguentemente, deve muoversi nella direzione di una sempre maggiore condivisione nazionale dei problemi, senza per questo negare le specificità territoriali ma, anzi, esaltandone le particolarità. Al di fuori di una visione di insieme dei problemi che riguardano anzitutto il clima e il rapporto tra questo e il modello di inviluppo in cui siamo incastonati, non esiste una soluzione vera e propria.

Se non si abbracciano questi temi su base nazionale e se non si vede il pericolo che corriamo con una particolarizzazione estrema, tutt’altro che federalista, ma davvero separatrice con l’egoistica riforma dell'”autonomia differenziata“, allora quei miliardi investiti dal governo serviranno come pannicello caldo per i romagnoli ma non saranno un investimento per il futuro.

Se veramente il governo Meloni avesse a cuore le sorti del Paese, cosa che non può avere perché obbedisce ai dettami di un anticultura di destra che nega le differenze in nome di una uniformità distorta, piegata alle regole del mercato, ma rivendicando una vicinanza sociale ipocrita nei confronti dei più deboli e malconci socialmente, si impegnerebbe in una profonda riforma della finanza nazionale e locale. Investendo nel pubblico, prevedendo una sorta di “bilancio sociale” proprio nazionale e, a cascata, per ogni istituzione della Repubblica.

Nei Comuni, nelle Regioni e nelle loro articolazioni di prossimità, sanitarie, sociali, culturali e di tutela della parte più fragile della popolazione, andrebbero potenziati gli organici, assumendo nuovo personale, difendendo così i servizi pubblici, garantendone la gratuità laddove possibile alle persone meno garantite, più esposte alla crisi plurima che ci attanglia oggi e che si mostra di lungo corso. Così, pure, andrebbero promossi veri e propri esperimenti di autogoverno, al fine di rendere le amministrazioni il più vicine possibile ai cittadini e viceversa.

La stessa Cassa depositi e prestiti meriterebbe una conversione pubblica, così come richiesto da una delle due proposte di legge di iniziativa popolare della campagna “Riprendiamoci il Comune“, per fare in modo che le davvero ingenti risorse del risparmio postale (si calcola ammontino a circa 300 miliardi di euro), possano essere una forma di sovvenzione agevolata per le comunità di base del nostro territorio: dai comuni più grandi fino a quelli più piccoli. La Repubblica, dice la Costituzione, si compone anzitutto dei Comuni e poi, a salire, di tutti gli altri enti.

Invece, da molto tempo a questa parte, ed il governo Meloni e le sue propaggini regionali di destra non fanno eccezione, le casse delle istituzioni locali sono state svuotate. Le loro capacità di tutela dei territori sono state rese inerti ed inermi, subordinate ad una illogicità del privatismo che scavalca l’interesse sociale, quello di una collettività che poi si ritrova a vivere tutte queste contraddizioni unitamente alle mancate risposte politiche (ed conomico-finanziarie) in materia di tutela dell’ambiente.

Da Ischia alla Romagna, dalla Liguria alle tragedie alpine dove neve e ghiacciai si sciolgono e rovinano a valle con il loro carico di morte umana ed animale, non mancano certo le prove delle inadempienze dei governi che si sono succediti. Ma, se le colpe sono interpartitiche, trasversali per maggioranze e minoranze, gli effetti del prolungamento delle stesse alla fine si fanno sentire sempre più enormemente e si riversano sulle fasce più deboli e indigenti della popolazione, oltre che su una economia già provata dalle troppe privatizzazioni messe in pratica.

Questo governo non potrà fare nulla dal punto di vista veramente ambientale, e quindi ecologista nel chiarissimo senso anticapitalista del termine, di contrasto di un sistema che continua a distruggere l’ecosistema globale e, ovviamente, quello italiano, non tenendo in considerazione nemmeno i beni culturali, paesaggistici e naturali del Paese. Questo governo non potrà fare nulla nemmeno di coerente in una presunta ricerca correlatrice tra sostenibilità e sviluppo.

Non si tratta soltanto di valutare l’origine ideologica di determinati provvedimenti, che pure ha la sua valenza e nutre le azioni del governo. Anzitutto si tratta di fare i conti, molto più pragmaticamente, con i rapporti di forza attuali, con il metodo Meloni: quello di propagandare nelle campagne elettorali la fermezza nei confronti degli abusi del mercato e poi, invece, passato il voto, accondiscendere alle esigenze del capitalismo nazionale (ed internazionale). Riarmo, spese militari e guerra compresa…

Una sinistra degna di questo nome, anticapitalista, liberista e quindi modernamente comunista (ostinatamente tale, sì), deve rilanciare una larga, diffusa azione di massa che unisca ambiente, lavoro, sviluppo e tutela dei soggetti più fragili, così come delle tante, troppe fragilità del suolo e del sottosuolo. Non solo quello che si vede in superficie ci mostra tutto il volto del problema che viviamo: una improgrammabilità del futuro, un disastro sociale ed ecologico che l’innaturalità del liberismo aumenta costantemente e non può fermare.

MARCO SFERINI

25 maggio 2023

foto: screenshot You Tube

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