L’unità del Dopoguerra

Mattarella: “Per rinascere ci è richiesta la stessa unità del dopoguerra”. Questa l’esortazione del Presidente della Repubblica nel tempo dell’emergenza sanitaria: ma come si realizzò davvero e chi pagò...

Mattarella: “Per rinascere ci è richiesta la stessa unità del dopoguerra”. Questa l’esortazione del Presidente della Repubblica nel tempo dell’emergenza sanitaria: ma come si realizzò davvero e chi pagò il prezzo della ricostruzione del Paese dalle macerie della guerra?

Un’osservazione di sicuro interesse quella del Presidente della Repubblica, che merita di essere approfondita anche attraverso un tentativo, sicuramente parziale, di riassunto delle vicende che, negli anni tra il 1945 e il 1955, portarono il Paese a ricostruire l’economia e il tessuto sociale.

Mentre le sinistre offrivano un contributo determinante alla stesura e all’approvazione della Costituzione Repubblicana e il mondo si divideva nella logica della “guerra fredda” la ricostruzione dell’Italia dalle macerie della guerra si misurava con un percorso irto di contraddizioni.

Non si trattò certo di quella “cavalcata” verso il progresso che, molto frequentemente, oggi viene presentata alla nostra labile memoria collettiva.

La ricostruzione si realizzò prima di tutto attraverso Il divorzio tra il testo costituzionale, entrato in vigore nel gennaio del 1948 e notevolmente avanzato sul piano sociale e la politica di ricostruzione svoltasi dopo il 1945.

Una politica di ricostruzione attuata sotto il segno dominante della scelta liberista e filo-padronale che caratterizzò in modo essenziale il periodo del centrismo.

La formula “centrista” di governo fondata sull’alleanza tra la DC, il Partito Repubblicano, quello Socialdemocratico e quello Liberale fece seguito alla fine dei governi di solidarietà antifascista, avvenuta nel maggio 1947 con l’esclusione del PCI e dello PSIUP dall’esecutivo.

Il 3 aprile 1948 il Piano Marshall divenne operativo. Conosciuto ufficialmente come Piano per la Ripresa Europea (European Recovery Program), il Piano Marshall fu uno dei piani statunitensi per la ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Prende il nome dal segretario di stato americano George C. Marshall che, durante un discorso all’università di Harvard tenuto nel giugno del 1947, invitò i paesi europei a presentare un programma di ricostruzione economica che gli Stati Uniti si impegnavano a finanziare.

La proposta voleva  favorire, con reciproco vantaggio, la ripresa dei sistemi economici e degli scambi commerciali nei paesi colpiti dalla seconda guerra mondiale.

Altro obiettivo dell’ERP non secondario e da ricordare era quello di porre un freno alla minaccia rappresentata dall’espansione sovietica. Nella conferenza di Parigi del 12 luglio 1947 sedici paesi europei, con l’esclusione dei paesi dell’Est, aderirono all’invito. Nell’aprile 1948 il Congresso americano approvò il piano varando un programma di finanziamenti quadriennale che operò sino al 1952.

La vittoria della DC nelle elezioni del 1948 e gli importanti aiuti statunitensi dati al Paese in base al piano Marshall costituirono la premessa perché l’ulteriore sviluppo politico e economico italiano avvenisse in un quadro d’isolamento sia dei partiti della Sinistra, sia della CGIL.

Dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948 compiuto da un giovane squilibrato, la CGIL reagì con lo sciopero generale politico. Si aprì, a quel punto, la stagione delle scissioni sindacali.

Proprio a causa delle divergenze sorte sulla risposta da dare all’attentato a Togliatti la corrente democristiana decise la scissione della CGL unitaria.

Il periodo delle scissioni sindacali si protrasse per circa due anni, dall’estate del 1948 alla primavera del 1950. La prima componente a lasciare la CGIL fu quella cattolica che nell’ottobre 1948 costituì la Libera CGIL, guidata da Giulio Pastore; dopo alcuni mesi, nel giugno 1949, fu la volta delle componenti socialdemocratica e repubblicana che dettero vita alla FIL (Federazione Italiana dei Lavoratori). Il percorso terminò con la nascita dell’Unione Italiana del Lavoro (UIL, 5 marzo 1950) e della Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL, 1° maggio 1950).

Nel periodo della cosiddetta ricostruzione , come in quello del miracolo italiano , l’ideologia del mondo cattolico assolse così con la scissione sindacale ad un ruolo di legittimazione analogo a quello giocato nel ventennio fascista dal mito dello Stato corporativo, e divenne uno dei più importanti strumenti di restaurazione dell’antico Stato liberale e della sua struttura, riassorbendo le spinte innovative scaturite dalla resistenza ed eludendo anche le istanze recepite nella Costituzione repubblicana.

La fase successiva alle scissioni fu una delle più difficili per il sindacato italiano, segnato da profonde divisioni ideologiche. Inoltre la repressione poliziesca, condotta dalla famigerata “Celere” potenziata dal Ministro degli Interni Mario Scelba, causò la morte di decine di lavoratori durante manifestazioni e scioperi. La città simbolo di questi “eccidi proletari” fu Modena dove il 9 gennaio 1950 morirono sei operai; ma la maggior parte delle vittime si ebbe in piccoli paesi del Sud (tra gli altri Melissa, Montescaglioso, Torremaggiore, Celano); le regioni più colpite furono la Sicilia e la Puglia.

Il governo centrista tentò a quel punto una sorta di “riformismo dall’alto” che diede risultati, a partire dalla riforma agraria approvata nel 1950, modesti e insoddisfacenti.

I risultati complessivi del quinquennio 1948-53 apparvero positivi sotto l’aspetto quantitativo, ma se si verificano dal punto di vista sociale gli squilibri non erano stati in alcun modo affrontati e attenuati.

La politica liberista del governo aveva dunque fatto pagare costi salatissimi sia al proletariato industriale del Nord, sia al bracciantato del Mezzogiorno.

Agli elevati profitti stavano di fronte salari bassi e pesantissime condizioni di lavoro: condizioni miserrime per milioni di persone cui si accompagnava una fortissima emigrazione verso i Paesi europei (pensiamo allo scambio carbone/manodopera con il Belgio e la trasmigrazione di interi paesi del Sud in Germania o in Svizzera) , le Americhe e l’Australia.

La ricostruzione poteva considerarsi ultimata nel 1954, quando la produzione industriale aveva superato ormai dell’81% la produzione del 1938, ma le condizioni reali di vita di gran parte del Paese iniziarono a migliorare soltanto con l’avvio della modernizzazione della grande industria, avvenuta grazie all’innovazione tecnologica che aveva fornito grande vantaggio alle esportazioni.

Toccò all’industria di Stato ricoprire il ruolo di capofila sia sul terreno dell’innovazione tecnologica, sia rispetto alle esportazioni, nella siderurgia, nella chimica e nell’industria petrolifera, con la vicenda legata all’ENI di Mattei fino alla sua misteriosa scomparsa.

Ma se aumentò complessivamente la produttività e con essa i profitti, i salari rimasero comunque indietro e scarsi furono i progressi dell’occupazione: nel 1955 risultavano ancora ben 2.161.000 disoccupati.

In una fase di sviluppo caratterizzata da alti profitti e da bassi salari, il padronato portò avanti una dura politica di attacco ai sindacati.

Sul fenomeno della miseria e dello sfruttamento si svilupparono ben due inchieste parlamentari: la prima fu approvata il 12 ottobre 1951. La XI Commissione permanente (Lavoro) della Camera dei deputati rese operativa una proposta di iniziativa dei deputati Vigorelli, Cornia, Tremelloni, Saragat, Zagari, Chiaramello, Belliardi del PSDI, per l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta “col compito di condurre un’indagine sullo stato attuale della miseria, al fine di accertare le condizioni di vita delle classi povere ed il funzionamento delle istituzioni di assistenza sociale”.

La seconda sulle condizioni dei lavoratori nelle fabbriche svolta nel 1957 fu realizzata attraverso un’altra commissione presieduta dal democristiano Rubinacci, commissione di cui fu eletto segretario il comunista Massimo Caprara, stretto collaboratore di Togliatti, poi tra i fondatori del “Manifesto”.

Durante il governo Scelba (1954 – 1955), in un clima di “guerra fredda” interna molto acceso l’ambasciatrice statunitense in Italia, Clara Boothe Luce, dichiarò che gli USA non avrebbero più dato commesse alle industrie dove nelle elezioni per le Commissioni Interne la CGIL avesse avuto più del 50%, si sviluppò in pieno l’azione padronale.

Sotto il peso del ricatto la CGIL subì un tracollo passando dal 60% al 38% nelle elezioni sindacali alla FIAT svoltesi nell’aprile del 1955 .

Alla FIAT Valletta aveva costruito opportunamente un sindacato “giallo” guidato dall’ex cislino Arrighi.

Era soltanto il caso più clamoroso fra molti altri, determinati da una generale strategia antisindacale condotta dagli imprenditori con l’appoggio del governo centrista DC-PRI-PSDI-PLI.

Insomma: la ricostruzione era conclusa e ci si avviava verso il “miracolo economico” in un clima di duro attacco alla CGIL, in condizioni di bassi salari e di alta disoccupazione.

Appariva chiaro quali soggetti sociali erano stati chiamati a pagare gli altissimi costi della ricostruzione del Paese stremato dalla guerra fascista.

La classe operaia e i contadini poveri (l’agricoltura pesava ancora per il 60% nella formazione del PIL) avevano pagato gran parte di questo prezzo ben oltre il richiamo all’unità nazionale che le forze politiche della sinistra avevano cercato di mantenere soprattutto per raggiungere, in particolare il PCI nel clima della guerra fredda, un dato di legittimazione nazionale in rappresentanza della classe lavoratrice e di ceti intellettuali progressisti.

La seconda parte degli anni’50 avrebbe visto il modificarsi di questa situazione anche per via delle progressivamente mutate condizioni internazionali: ma il cammino verso il centro – sinistra con l’ingresso del PSI nell’area di governo si sarebbe realizzato ancora a prezzo di drammatici sussulti come quello del Luglio ‘60.

In quel mese fatidico fu fatto cadere in piazza un governo democristiano sostenuto dall’MSI.

Un successo politico realizzato versando un altissimo prezzo di sangue e pagato in gran parte dal PCI che vide cadere cinque suoi militanti operai a Reggio Emilia, vittime nuovamente della polizia che sparò sui partecipanti allo sciopero indetto contro il governo Tambroni.

FRANCO ASTENGO

26 marzo 2020

foto: screenshot

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Il novecento

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