Lucy sopravvissuta al Novecento; Lucy sopravvissuta a violenza ed emarginazione; Lucy sopravvissuta al nazifascismo che l’aveva deportata a Dachau. Sono a Rochester, New York, Usa. Ricevo una chiamata dall’Italia: Lucy è morta.

Sono sconvolta, afflitta ma non sorpresa. Ce lo aspettavamo, nonostante rimuovessimo l’idea come assurda o impossibile. Lucy, forte come una roccia, sopravvissuta alle prove peggiori, Lucy dalle sette vite come i gatti questa volta ci ha lasciate veramente.

Da più di un mese era ricoverata per una polmonite, aveva già avuto altri ricoveri ed ogni volta ne era uscita più sana di prima. Pensavamo tutte che anche questa volta sarebbe andata così, nonostante i suoi 98 anni suonati. Ma, a differenza delle altre occasioni, Lucy ripeteva di essere stanca. E credo che quando ci si sente stanche forse è il momento di riposare.

Circa 25 anni fa in una telefonata dell’Anpi mi si chiedeva se conoscevo una persona trans dal nome anagrafico di Luciano Salani, residente a Bologna, professione tappezziere, presumibilmente trans, ex deportata a Dachau. Per quanto sorprendente la richiesta mi lasciava silente perché non conoscevo nessuna trans corrispondente a questa descrizione. Provai a chiedere alle più anziane ma nulla. Solo “La Giraffa”, la più attempata delle travestite bolognesi, mi disse che probabilmente poteva trattarsi della Carmen.

La cosa finì lì. Qualche anno dopo una scrittrice e regista mi chiese di fare da intermediaria con Lucy. E lì il cerchio si chiuse. Un invito a pranzo da Lucy e si aprì un mondo, una storia, un’epopea favolosamente riportata nel docufilm “C’è un soffio di vita soltanto” di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini.

Il primo arresto e condanna per omosessualità, perché trovata in una pensione dove si intratteneva con un ufficiale tedesco. Processo, fuga attaccata sotto a un treno in giro per una Germania gelida. Scovata dai cani a Innsbruck, arrestata per diserzione: aveva vent’anni, maschio italiano, abile alla leva ma fuori dai confini, risultava quindi disertore come tanti dopo l’8 settembre del 1943.

Rinchiusa a Dachau dall’autunno ’44 alla liberazione dei campi nella primavera del ’45. Successivamente, dopo quel buco nero, vaga tra Italia e Francia, anzi Parigi, la città più accogliente per una persona come lei: avanspettacolo, appuntamenti, lavoretti vari, l’arte della sopravvivenza. Si opera a Casablanca negli anni Sessanta, ma non vuole cambiare il suo nome neanche dopo il 1982 quando, dopo l’approvazione della legge 164, ce ne sarebbe stata la possibilità. “Il nome me l’hanno dato i miei genitori, ed è giusto così”, ripeteva.

Tante vite, tanto pieno di vita, simbolicamente potente ma anche culturalmente e politicamente. Lucy che ha attraversato due secoli, se non due millenni, una o tante guerre, epoche, stili, restrizioni ed emarginazione, non è una storia ma “la” storia, la nostra, quella di un paese alla ricerca di una sua connotazione.

Nel luglio del 2022 il Comune di Bologna le assegna il riconoscimento della Turrita di bronzo come “testimone di libertà e resistenza”. E tutta la comunità trans ed LGBT+ vede in lei sia in vita che in morte il simbolo della resistenza, della libertà, dell’autodeterminazione contro tutte le sopraffazioni che oggi più che mai attanagliano le libertà e il processo di crescita di un paese. Lucy ci ha sconvolte per il suo ottimismo, la sua vivacità, la sua forza ed ora che non c’è più resterà per noi icona e presidio di resistenza, resilienza e favolosità.

PORPORA MARCASCIANO

da il manifesto.it

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