La “visione di insieme” per frenare l’autodistruzione del pianeta

A leggere certe cronache sui giornali, in merito agli sconvolgimenti climatici che hanno attraversato la zona occidentale della Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo, pare quasi che la sorpresa stia...

A leggere certe cronache sui giornali, in merito agli sconvolgimenti climatici che hanno attraversato la zona occidentale della Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo, pare quasi che la sorpresa stia tutta nel trasferimento all’estero di un malessere ambientale che ha interessato l’Italia con cataclismi non trascurabili e che, di tanto in tanto, si manifestano per ricordarci tutta la precarietà del nostro territorio malandato.

E’ una visione provinciale dell’ecologia e dell’ambientalismo, di una ritrovata empatia verso Gaia e tutto il suo ecosistema violentato dalla specie umana per interessi prevalentemente economici: interessi che, tutt’oggi, insistono con grande pervicacia nell’accostare sviluppo e consumi, come se questo modello strutturale capitalistico, divoratore di ogni energia terrestre, di ogni protezione che la Terra ci forniste dalle influenze esterne dell’universo grande ed ostile, fosse veramente compatibile con anche soltanto l’idea di recuperare il tempo perduto e di frenare questa corsa all’autodistruzione.

Il tempo è scaduto ormai da tempo. Se ne sono accorti un po’ tutti gli scienziati: geologi, climatologi, fisici, astrofisici e studiosi del comportamento umano in relazione all’ambiente. Nessuno più osa dire che, pur diminuendo drasticamente le emissioni di gas del 50% entro il 2030 o anche in mete temporali meno vicine ma più ambiziose per taglio di inquinamento, si possa vedere nel corso di questa vita – facendo riferimento alle giovanissime generazioni – una altrettanto radicale inversione di tendenza che ridia al pianeta quell’equilibrio naturale perso per colpa dell’essere umano.

Ciò non deve essere assunto come alibi per scrollare le spalle e affermare che, intanto, sic stantibus rebus, non si può fare più niente. Si può e si deve fare molto, perché senza azioni uguali e contrarie rispetto al presunto evoluzionismo umano in salsa capitalistica, il peggioramento delle condizioni di vita sul globo diventerà esponenziale. A quel punto le catastrofi ambientali – che altro non sono se non la risposta naturale (in tutti i sensi) dell’ambiente alle nostre forzature nei suoi confronti – diventeranno costanti, quotidiane, impossibili da evitare o da limitare con anche grandi opere ingegneristiche o stratagemmi che – per assurdo – farebbero pagare proprio all’ambiente il loro costo primario.

E’ davvero importante che i comunisti si mettano al lavoro, proponendosi come forza rivoluzionaria nuova anche in questo senso: unificando la critica sociale a quella ambientale e abbracciando una visione veramente più ampia della lotta per l’evoluzione di tutti gli esseri viventi sulla Terra. Non è più sufficiente costruire analisi che si fermano alla mera liberazione umana dallo sfruttamento di una classe (anti)sociale su un’altra classe sociale.

E’ tempo di riconoscere che il marxismo va innovato e ampliato nella sua esposizione critica e che va implementato con un libertarismo che tenga in considerazione la simbiosi tra liberazione umana, liberazione animale e liberazione ecologica. Esseri viventi animali, umani e non umani, insieme all’ambiente in cui vivono devono poter costruire un futuro di condivisione delle esperienze, rispettandosi vicendevolmente.

Un indirizzo politico, sociale (e conseguentemente anche “ideologico” e morale) antispecista che è utile alla causa ecologista: non solo perché non esiste una reale, vera lotta ambientalista senza l’anticapitalismo; ma di più ancora, non può esistere una vera liberazione umana senza una eguale liberazione di tutti gli altri esseri viventi e della Terra stessa dallo sfruttamento dell’uomo nei loro confronti.

In questo ambito di ragionamento e discussione, alcuni giorni fa ho provato ad estendere alcune idee in merito, avvicinandosi l’XI Congresso nazionale di Rifondazione Comunista. Un piccolo partito, lo sappiamo tutti. Ma un partito che proviene non solo dall’esperienza comunista italiana del grande PCI, ma pure da quella sinistra critica che aveva osato già negli anni ’60, ’70 e ’80 mettere l’accento su temi che venivano snobbati e considerati “distraenti” dalla contraddizione (allora centrale nel dibattito politico progressista) tra capitale e lavoro.

E’ un poco la sorte toccata dai diritti civili e LGBTQI+ in questi ultimi decenni: i comunisti che si considerano custodi dell’ortodossia marxista, non facendo altro se non negare proprio il marxismo e vilipendendo il migliore respiro libertario dell’eguaglianza comunista dalle origini della Lega fino ad oggi, propongono una compressione dell’orizzonte della lotta di liberazione dallo sfruttamento: la restringono al solo contesto umano, la scindono da qualunque altra interazione che proprio i sapiens hanno con il cosiddetto “villaggio globale“. In questo modo, rendendosene più o meno conto (a seconda della buona o cattiva fede delle proposte messe in campo), deprimono il potenziale di una riproposizione del comunismo come movimento reale che abolisce davvero lo stato di cose esistente.

L’umanesimo che Gramsci inserisce nella lotta del mondo del lavoro contro la proprietà privata dei mezzi di produzione, non viene immediatamente ripreso dai comunisti di metà ‘900. I fatti bellici hanno impedito che si potesse dare seguito ad un dibattito simile, molto impegnativo, rivoluzionario per antonomasia, poiché coinvolgente questioni che, davanti alla necessità di garantire un salario decente e un orario di lavoro adeguato agli sforzi disumani richiesti al proletariato dai padroni, divenivano irrilevanti, di secondo piano.

La questione ambientale, del resto, è tema post-bellico: si affaccia con prepotenza dopo l’utilizzo dell’atomica che è, in tutta la sua devastante potenza, la manifestazione plastica dell’offesa umana alla Terra. Sterminio di massa di centinaia di migliaia di esseri umani, di animali e di tutto ciò che li circondava. Non rimane nulla in quella desertificazione artificiale: tutto è raso veramente al livello del suolo. I colori sono cancellati aleggia solo un mefitico odore di carni bruciate, di ferro piegato dal calore, di foreste annichilite nel giro di pochi secondi.

Se, dunque, per i comunisti italiani del ‘900 era difficile poter declinare unitamente questione sociale, liberazione animale e problema ecologico, oggi questo alibi viene a cadere perché abbiamo tutti gli strumenti necessari per analizzare compitamente la gravità della situazione che insiste dentro ad un capitalismo liberista cui non si può fare nessun appello di contenimento del danno. Tanto è naturale lo sviluppo dell’economia di mercato, che segue regole ben precise pur nell’anarchia economica che ciclicamente attraversa, così è naturale la reazione dell’ambiente che obbedisce a leggi irriformabili per decreto.

Ma la politica può fare molto. Può farlo se è sostenuta, e forse anche oltrepassata e quindi spinta, da una presa di consapevolezza popolare vasta: dalla formazione di una vera e propria “opinione pubblica” che deve però poter far conto su una avanguardia che la indirizzi con coscienza, senza sciupare un milligrammo di intelligenza nel contemplare il disastro cui andiamo tutte e tutti incontro.

Non più pensare come isolati i fatti che accadono: tanto meno scissi dalla questione economica, da quella finanziaria, da quella che riguarda tutti gli esseri viventi sul pianeta. L’isolamento e la compartimentazione dei problemi sono utili soltanto a chi vuole evitare quella “visione di insieme” che è l’unica vera possibile genitrice di una nuova voglia di uguaglianza. Ma questa volta per tutti: umani, animali e ambiente.

MARCO SFERINI

16 luglio 2021

Foto di 政徳 吉田 da Pixabay

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