La corresponsabilità di una tragedia più che annunciata

Cinquecento, poi seicento. Quasi ottocento. E’ la conta dei bambini uccisi dai bombardamenti dell’aviazione di Israele in questa prima fase di offensiva contro Hamas a Gaza. Le vittime innocenti,...

Cinquecento, poi seicento. Quasi ottocento. E’ la conta dei bambini uccisi dai bombardamenti dell’aviazione di Israele in questa prima fase di offensiva contro Hamas a Gaza. Le vittime innocenti, si dirà un po’ a metà tra rassegnazione e cinismo, fanno parte del cruento gioco della guerra. E’ vero. Ma è altrettanto vero che uno Stato che si definisce democratico dovrebbe piangere le sue vittime e pianificare una operazione anti-terrorismo (se di questo veramente si tratta) contro i capi e la dirigenza di Hamas, contro gli elementi più radicalizzati, contro i combattenti.

I civili dovrebbero essere messi nelle condizioni di poter sfuggire alla tempesta di fuoco che Netanyahu e Gantz hanno deciso di scatenare contro la Striscia. Invece, sono proprio loro, i più indifesi, i più deboli a fare le spese della vendetta israeliana. Perché di questo si tratta e di niente altro. Alle migliaia di morti e feriti causati dalla ferocia brutale e criminale delle Brigate Ezzedin al Qassam, corrispondo oggi, in una davvero lugubre conta delle vittime, le migliaia di morti e feriti palestinesi. Occhio per occhio e il mondo sarà cieco.

Ed è proprio come affermava Ghandi. La cecità è il prodotto della rabbia, della collera, della voglia di vendicarsi ad ogni costo. La cecità è altresì il prodotto di una politica che, per cercare di mantenere intatto il suo potere di governo, promette in sostanza il genocidio di un popolo al suo popolo. L’eliminazione di Hamas che Netanyahu annuncia in televisione, in sostanza, sta divenendo e diventerà un accanimento spietato contro ogni palestinese che sarà trovato nel nord della prigione a cielo aperto.

Tutti, ma proprio tutti gli attori potenti della scena internazionale stanno dicendo a chiare lettere, timorosi delle ripercussioni che questa mattanza produrrà globalmente, che Israele deve riconsiderare l’azione di ritorsione nei confronti di Hamas e deve rivederne i tempi, i modi.

E’ inimmaginabile che un milione e mezzo di persone possa essere evacuata in un giorno soltanto. Decine di migliaia di palestinesi si sono spostati e si sposteranno ancora verso il confine con l’Egitto, ma la condizione di invivibilità che è stata prodotta da Israele in queste ore, tagliando ogni fonte di elettricità, ogni approvvigionamento di beni di prima necessità, dal cibo alle medicine,  è un atto criminale, perché si rovescia sull’interezza della popolazione.

Ad una serie di orrori, quelli perpetrati da Hamas nei kibbutz, al rave party dei giovani israeliani, nei villaggi prossimi al confine con la Striscia, non si risponde con una uguale serie di orrori. Il segretario di Stato americano, non un pericoloso antisionista, ha ammonito Israele, chiedendo al governo di Tel Aviv di comportarsi come una democrazia salda e matura. Ciò che Israele non è mai veramente stato in questi settantacinque anni, a far data dalla sua nascita nel 1948.

Certo, paragonato alle autocrazie del Golfo Persico, del Medio Oriente in generale e ai regimi più o meno panarabeggianti dell’Africa (almeno un tempo era così…), qualunque altra forma di parlamentarismo in cui si alternano le forze politiche al governo dello Stato può far dire che siamo innanzi ad una democrazia sostanziale. Invece siamo sempre stati davanti ad una democrazia formale, perché l’elemento religioso ha contato tanto quanto quello militarista nella costruzione della società israeliana.

E questo perché lo Stato ebraico, non trovando una via diplomatica per la soluzione del conflitto col popolo palestinese, si è creato da solo le condizioni di una sopravvivenza giornaliera fatta di costruzione di bunker casa per casa, di muri di cemento, di colonizzazioni che sottraevano sempre più terra alla Palestina e che ingigantivano il problema piuttosto che ridurlo.

La responsabilità dell’attuale guerra in Medio Oriente è tanto di Hamas quanto di Israele.

La superiorità morale dello Stato fondato da Ben Gurion, guidato da Golda Meir e difeso da generali come Moshe Dayan, viene progressivamente meno nel momento in cui l’accelerazione verso un genocidio del popolo palestinese si concretizza ora per ora; mentre i carri armati entrano nel territorio di Gaza e la fanteria setaccia le zone abitate per trovare gli ostaggi fatti dall’organizzazione islamica e, parimenti, l’aviazione sgancia tonnellate di bombe tutto intorno.

La partita si è fatta così intricata e ginepraica da non potersi illudere che le implicazioni di politica internazionali la riguardino fin dentro le maglie più fitte delle conseguenze che si avranno con l’imminente invasione di terra della Striscia da parte delle truppe dell’IDF. Se possiamo parlare di “guerra mediorientale“, e non soltanto più di conflitto tra Israele e Hamas, è perché lo Stato ebraico sta, lui per primo, allargando il terreno dello scontro.

L’attacco alle postazioni di Hezbollah in Siria e Libano non è soltanto un avvertimento. E’ la necessità di anticipare le mosse di un nemico che soffia sul collo di Israele da sempre. Perché l’anomalia israeliana rimane, nonostante il passare dei decenni, tale in quel contesto arabo, in quel mondo musulmano che si è risvegliato dopo la fine dei regimi baathisti che, nel bene e nel male, avevano fatto da argine alle spinte religiose, al fanatismo jihadista.

Il popolo palestinese si trova in una bufera di fiamme, di fuoco, di piombo fuso, di macerie e di morte mentre tutto intorno si gioca un’altra fase della partita di una geopolitica mondiale in cui Washington posiziona le sue pedine: la grande portaerei “Gerald Ford” è davanti alle coste di Gaza, pronta per essere impiegata nella repressione delle eventuali minacce che potrebbero provenire da nord verso Israele.

Finanziamenti ed armamenti stanno arrivando al governo ed all’esercito di Tel Aviv dalla Repubblica stellata, mentre il profilo europeo è dimesso, diviso, litigiosamente preoccupato delle ritorsioni jihadiste che si potrebbero avere nel Vecchio continente. Si tratta di timori non del tutto infondati a cui, da sfondo, fa l’uccisione di un professore da parte di un giovane ceceno noto e stranoto ai servizi segreti francesi e che, nonostante ciò, ha potuto riversare il suo odio tagliando la gola al docente al grido classico di “Allah u akbar!“.

Quasi quattromila morti, quindi, devono considerarsi solamente il proemio di una tragedia che si prevede avrà tempi lunghissimi e che, il giorno che sarà ufficialmente finita, lascerà per decenni e decenni la sua cicatrice sanguinante nella terra del Giordano. Questa è la risposta che una democrazia dà ad un brutale attacco terroristico? Questa è, dunque, la connotazione moderna di uno Stato in cui tutte le opinioni dovrebbero essere legittime e, soprattutto, i diritti di tutti i cittadini dovrebbero essere rispettati, protetti e magari ampliati?

No, questa è la risposta ancora e sempre soltanto di un potere, di un dominio coloniale, imperialista, che ha stabilito un criminale regime di apartheid nei Territori occupati e che ha consentito (e talvolta anche finanziato) la radicalizzazione di determinati settori estremisti di un indipendentismo palestinese che è diventato altro da sé stesso; una parte militare che si è fatta momentaneamente politico-istituzionale per accrescere le sue fila, per esasperare la lotta, per sfruttare una nobile causa e piegarla ai propri fini.

Hamas e il governo delle destre israeliane sono corresponsabili di questa tragedia che insanguina Gaza, la Palestina e Israele. Sono due facce di una stessa medaglia: quella di un orrore che è frutto di un fanatismo religioso da entrambi i lati, di una esacerbazione delle incoscienze, di una propaganda unidirezionale ed etnicista, razzista e suprematista che intende dimostrare come il diritto alla vita esista soltanto per uno dei due popoli. Non c’è spazio per tutti e due.

Nel marzo di quest’anno, il ministro delle finanze del governo di Netanyahu, Bezalel Smotrich, si lasciò scappare ciò che realmente pensava sul grande dramma del popolo di Arafat: «Non si può parlare di “palestinesi” perché non esiste un “popolo palestinese”. Sapete chi è palestinese ? Io sono palestinese. Mia nonna, nata a Metulla oltre 100 anni fa in una famiglia di pionieri che ha creato insediamenti in Galilea, lei era palestinese. Mio nonno, che era la tredicesima generazione della sua famiglia a Geruslemme, era un vero palestinese».

I palestinesi, quindi, venivano ridicolizzati storicamente, negati in quanto popolo, in quanto entità preesistente alla creazione dello Stato di Israele e definiti “una finzione” creata per impedire al sionismo di affermarsi nell’antica regione dove sorgeva il Regno di David. Un pogrom concettuale che riflette le politiche da pulizia etnica che state portate avanti in tutti questi decenni tanto a Gaza quanto in Cisgiordania.

Dalla Nakba a Sabra e Chatila, dalle guerre contro i paesi arabi all’Intifada parte prima e parte seconda, questa logica sterminatrice, seppure negata nelle orazioni e nei comizi ufficiali, velatamente sottende tutti i rimarchevoli concetti che si sono tradotti in pratiche concrete nella gestione della vita quotidiana tanto a Tel Aviv quanto a Gaza. Non c’è, al di qua o al di là della linea verde (o di quella blu col Libano) nessuno che possa dirsi al sicuro.

Ma può una democrazia sorreggersi su queste basi di costante e permanente incertezza del suo popolo? Può farlo vivere in una situazione di preallarme pressoché infinito? Può trattare i palestinesi come degli abusivi e far finta che la Storia non sia mai esistita, adducendo come alibi proprio la Storia stessa, la grande, immensa tragedia olocaustica di un Novecento grande e terribile al tempo stesso?

La guerra di oggi non era inevitabile. Sarebbe stato sufficiente iniziare a trattare, a fare del conflitto armato un ricordo iniziando un percorso diplomatico supportato da alleati dell’una e dell’altra parte, magari pure con la supervisione dell’ONU.

Ma, è del tutto evidente, esiste una debolezza delle Nazioni Unite che è mantenuta tale dai suoi stessi membri e finanziatori più importanti. Così come è evidente la partita multipolare che si gioca a livello globale e che, infatti, vede gli Stati Uniti su tre fronti: quello europeo con la NATO in Ucraina, quello asiatico con la crisi di Taiwan e, da una settimana, la riapertura di quello mediorientale.

La storia di Israele potrà un giorno forse essere diversa, così quella della auspicabile nascita di una vera Repubblica palestinese. Fino ad oggi lo Stato ebraico ha disegnato di sé stesso i caratteri peggiori di una democrazia che scivola, senza soluzione di continuità, nella più deprecabile inclinazione al teocraticismo, ad una sorta di etica religiosa che prevale sul diritto, contrapponendo sionismo ad israelismo come modelli antitetici di comunità e di nazione.

Ed i palestinesi sono entrati, con le loro istituzioni a metà, con i loro doppi governi, con tutte le limitazioni imposta d Israele, in un cortocircuito alienante, che li ha illusi di essere una controparte, mentre divenivano progressivamente una parte sempre più assente dal contesto regionale, da quello mondiale.

La rivincita di Hamas, come la probabilissima futura vittoria di Israele, è già parte di una sconfitta epocale. Per tutte e per tutti. La pace è una illusione, oggi come oggi. Ma la guerra è un grande omicidio di massa, un crimine contro l’umanità. Un tratto distintivo di un mondo dove le contraddizioni sono guidate dal potere economico, finanziario e dove la politica ha la funzione di comprimarietà.

E non c’è democrazia che tenga, non c’è etica del diritto che valga, tanto meno quello internazionale se nessuno lo riconosce come tale e ne permette l’applicazione. Non sembra esserci più nulla per cui valga la pena sperare. Eppure sperare bisogna, lottare si deve, resistere si può. Ammesso che vi siano, domani, ancora delle generazioni che tutto questo se lo possano permettere.

MARCO SFERINI

14 ottobre 2023

foto: adattamento da screenshot You Tube

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