Il vento di destra. Dalla Liberazione a Berlusconi

In attesa che il Presidente della Repubblica dia l’incarico per la formazione del nuovo governo a Giorgia Meloni, si può fare un viaggio nella ormai trentennale parabola ascendente delle...
Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini nel 1994

In attesa che il Presidente della Repubblica dia l’incarico per la formazione del nuovo governo a Giorgia Meloni, si può fare un viaggio nella ormai trentennale parabola ascendente delle destre, senza dimenticare quell’ambito storico che permette di comprendere molto più a fondo da dove veniamo e, forse, anche dove stiamo andando.

In un dialogo tra Enzo Santarelli e Aldo Garzia, intitolato “Il vento di destra” (edito da Datanews nell’ormai lontano 1994), si ritrovano tutti i caratteri quasi genetici di una attualizzazione progressiva, costante e inesorabile tanto del nazionalismo neofascista italiano dal 1945 al 1989 e, a seguire, della scalata al potere del futuro assetto liberista-sovranista tramite il ventennio berlusconiano, quanto le avvisaglie di ciò che ne sarebbe, di lì a poco, nato nel seno dell’esaltazione un po’ unanime del mito della modernità a tutti i costi.

Fatti e misfatti della Storia si susseguono in una perfetta successione di cause ed effetti e, col senno del poi di cui son piene le fosse, molte delle domande che si arrovellano nelle menti dei commentatori politici televisivi e internettiani, se non possono proprio avere una completa soluzione e risposta, quanto meno ottengono delle delucidazioni che spiegano come mai oggi Giorgia Meloni sia arrivata al massimo del potere, nel cuore dello Stato, molto vicina a poter innescare quei cambiamenti anche istituzionali che stanno (e stavano) a cuore ai reduci di Salò finiti nel coagulo nero del MSI.

Presidenzialismo, militarismo, securitarismo, dio, patria, famiglia. Un misto di conservatorismo e di reazionarismo che è, non solo oggi, la doppia cifra delle destre che si apprestano a governare.

Il dialogo tra Santarelli e Garzia non ha doti di preveggenza e, quindi, non ci può dire, finita la lettura dell’ultima pagina del libro, a cosa approderà il post-fascismo odierno: se di Meloni prevarrà l’attuale tratto più compassato e moderato (almeno apparentemente), di stigmatizzazione e al contempo di dialogo con le istituzioni europee, oppure se verrà fuori l’anima comiziale, quella della veemenza, della muscolarità verbale, dell’aggressività un po’ coattamente romanesca.

Non si tratta di volere a tutti i costi avere davanti due Meloni. Ne basta e ne avanza già una, se è per questo. Ma, oltre le battute scontate, in queste settimane e mesi ci siamo tutte e tutti accorti che la doppiezza della leader di Fratelli d’Italia è un efficace arte dissimulatoria messa in campo resilientemente, a seconda dei contesti, del pubblico, dell’uditorio e anche del momento.

In questo frangente, Giorgia Meloni è veramente molto “democristiana“, di certo non di quella scuola della Balena bianca che guardava al compromesso storico, a rinserrare le fila prima con Nenni e poi con Berlinguer, soprattutto dopo i fatti del settembre 1973 in Cile e dopo i tanti tentativi di sovvertimento della Repubblica Italiana e della sua Costituzione. Semmai è divenuta presto allieva di un mistiforme politico composto da lotta e governo, piazza e palazzo, comizio e conferenza, durezza e trasformistica malleabilità alle regole interne ed internazionali su come ci si deve comportare per avere e conservare il potere.

Tipica qualità democristiana, ma molto poco neocentrista oggi, laddove l’arte del infingarderia non si accompagna propriamente ad un tatticismo utilitaristico: vedasi a proposito Calenda e Renzi, due rulli compressori che non soddisfano del tutto le aspettative del bel mondo imprenditoriale catalizzandone la stragrande maggioranza dei consensi, non sapendola e non potendola unire ad un voto trasversale e di massa.

Così, dopo cinquant’anni di MSI, Alleanza Nazionale e Popolo delle Libertà, ecco che un partito come Fratelli d’Italia eredita quella parte storica, politica e anche culturale di un segmento estraneo all'”arco costituzionale” e se lo porta appresso mettendo nel suo simbolo la fiamma tricolore e operando, in questo modo, l’ultimo revisionismo possibile, l’ultimo tabu infranto: quello dei post-fascisti al governo del Paese.

La forma dialogica dell’intervista dà al libro di Santarelli e Garzia un carattere di estrema attualità: se si cambiassero i nomi di alcuni dei protagonisti della prima fase dell’era berlusconiana, molto poco muterebbe nell’individuazione delle cause che allora portarono a Palazzo Chigi un imprenditore di successo, amico di Bettino Craxi, iscritto alla P2 e con tutta una rete di relazioni che condussero a lanciare – giustamente – l’allarme democratico per il vasto conflitto di interessi in corso, e il parallelismo con quelle che oggi hanno permesso a Fratelli d’Italia di conquistare l’egemonia nel campo di destra, scalzare la Lega, far man bassa del disagio crescente tra gli strati più poveri della società.

Non tutto il successo della destra, dal 1945 ad oggi, è frutto di una sola operazione di revisionismo storico; ma, certamente, non si può prescindere dal lavoro di erosione della democrazia repubblicana fatto da chi ha inteso sempre presentarsi come erede di una parte importante di una Italia che combatteva dalla parte ritenuta “sbagliata” dagli antifascisti. Ossia da coloro che hanno, col contributo militare degli alleati, messo fine alla dittatura di Mussolini e al nazifascismo.

Una parte “sbagliata” a cui si faceva sempre, da parte degli esponenti del MSI, riferimento unendole sempre la congiunzione avversativa che introduceva al concetto del “in buona fede“.

Certamente di una fede fascista, di una considerazione del ventennio e di Salò come di due esperienze da non consegnare solamente alla Storia, ma da rivalorizzare sotto forme nomi diversi da quelli di un tempo. E non tanto per evitare la proibizione costituzionale della riformazione del disciolto partito fascista (aggiramento normativo che l’MSI ha rappresentato fin dal 1946 e che è stato tollerato col supporto di tanti interessi prima nascosti e poi venuti a galla negli anni ’90… Gladio docet…), quanto per dare un nuovo corso valoriale ad un neofascismo non più presentabile come tale.

A riguardo della mancata occasione di comprensione delle nuove forme dell’antifascismo nate nel biennio incandescente del ’68-’69, Santarelli evidenzia con acutezza il ritardo con cui il PCI, ma pure l’ANPI e le altre associzioni partigiane e resistenti giunsero a capire quell’esigenza dei giovani di passare dalla commemorazione all’azione, dalla giustezza del ricordo alla messa in pratica dello stesso con una lotta senza quartiere contro quel neofascismo che si strutturava anche, e soprattutto, grazie alla copertura di servizi segreti deviati, apparati dello Stato che puntavano a realizzare il “Programma di Rinascita nazionale” della P2 e a sovvertire la Repubblica.

Anche in questo caso, spostando l’attenzione sull’oggi, è complicato poter stabilire se stiamo sottovalutando, per forme e per contenuti, quello che Meloni e soci propongono al Paese come ricetta di un conservatorismo in aperta contraddizione solo con il suo diretto contrario, il progressismo; mentre, invece, potremmo essere davanti ad una riedizione di un piano politico reazionario mascherato dalla piena accettazione dei protocolli che sono stabiliti dal bon ton istituzionale.

Il dibattito su fascismo e antifascismo prende il via con la nascita dei due fenomeni connessi ma anche molto equidistanti fra loro. Certamente, nel 1945 – come nota Santarelli – le tematiche che vengono esaminate sono altre: non si parla più della presa del potere da parte del PNF, bensì dell’eredità clandestinamente storica che consegna al dopoguerra, con il fantasma di Mussolini che aleggia, con i gerarchi in fuga e con la sfacciataggine di molti di loro nel rimanere in attesa di un perdono, se non da parte dell’Italia democratica, almeno da parte della Storia.

Il tema della “pacificazione nazionale” è un altro punto su cui la distrazione di massa si è concentrata molte volte, per evitare probabilmente un’elaborazione culturale, sociale, civile e morale del fascismo come fenomeno cui aveva preso parte – volente o nolente – quasi tutta la popolazione italiana. Quando si afferma che i conti con il nostro passato tocca ancora farli, non si dice una banalità, qualcosa di scontato, perché se tra breve a Palazzo Chigi andrà a sedere come Presidente del Consiglio dei Ministri una persona che non si è mai dichiarata “antifascista“, evidentemente un problema in tal senso esiste ancora.

Ha preso campo in questi mesi una nuova parola che ha accompagnato l’ascesa di Fratelli d’Italia e la sua vittoria nelle urne: post-fascista, post-fascismo.

Si intende proporre, su vasta scala mediatica, la percezione sostanziale per cui sia il partito, sia Meloni sono passati attraverso un processo di allontanamento dal nostalgismo e dalla piena aderenza al neofascismo per approdare ad un piano conservatore. Insomma, una sorta di revisione delle proprie idee e dei propri programmi politici per poter essere finalmente accettati nel salotto buono della vocazione maggioritaria e governista.

Postfascismo come premessa accettabile anche per la manifesta e dichiarata volontà di non disconoscere la storia di ieri, ma di “consegnare il fascismo alla Storia“? Queste sono formulette acutamente insidiose per evitare di arrivare al punto dirimente: Meloni giurarà ancora una volta sulla Costituzione antifascista, ma lei è pronta a dichiararsi e quindi ad essere tale nell’espletamento del suo dovere di Presidente del Consiglio? Ne sapremo di più quando parteciperà alle manifestazioni del 25 aprile il prossimo anno

Santarelli, riferendosi alla storia del MSI, estrinseca dalla stessa le ragioni per cui non è mai stato messo fuorilegge il movimento nato dalle ceneri del repubblichinismo di Salò: perché «non c’è stata una linea unica da parte delle forze democratiche nei suoi confronti. Se si studiasse a fondo la questione, emergerebbe che ci sono state posizioni diverse rispetto alla legalizzazione di quella formazione neofascista. Il problema si è risolto nella prassi».

E così fu: il MSI non prese parte all’Assemblea Costituente ma si presentò al voto del 1948 conquistando un po’ di seggi che gli permisero di iniziare la sua storia parlamentare in un regime democratico che detestava e che voleva capovolgere, portando l’Italia a somigliare il più possibile al fascismo delle origini (e in parte anche a quello grigio e tetro dei 600 giorni di Salò).

L’errore, se veramente di errore si può parlare, è stato appunto questo: l’unità antifascista che aveva presieduto, diretto e scritto la Costituzione della nuova forma dello Stato italiano, si era infranta nelle elezioni politiche sull’onda della contrapposizione tra Est e Ovest, tra rossi e bianchi, tra fedeltà al campo sovietico o a quello atlantico-americano.

Ed oggi? Fratelli d’Italia sarà un partito conservatore, che dialogherà con la destra moderata, che escluderà qualunque torsione autoritaria nel Paese, oppure spunteranno quelle pulsioni meloniane che si sono viste al comizio spagnolo davanti alla platea di Vox?

Per l’esperienza che abbiamo, possiamo dirla ancora con Santerelli (che allora si riferiva al montare del berlusconismo nei differenti ambiti politici, economici e sociali): «va sottolineata la fluidità della situzione attuale». Non è una nota di compiacimento, ma una stigmatizzazione di quello che ci potrebbe aspettare come singoli cittadini e come intero Paese. Il “vento di destra”, conservatore o reazionario che sia, è sempre, ma proprio sempre un gran brutto vento.

IL VENTO DI DESTRA
DALLA LIBERAZIONE A BERLUSCONI
ENZO SANTARELLI (Intervista di Aldo Garzia)
DATANEWS
€ 8,00

MARCO SFERINI

5 ottobre 2022

foto: screenshot

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