Quella complessità “invisibile” della rete del terrore

Non sono nemmeno trascorse ventiquattro ore da quando ieri scrivevamo del dramma che si sta consumando in Afghanistan e, nello specifico, all’aeroporto di Kabul. Ci sembrava già enormemente grande...

Non sono nemmeno trascorse ventiquattro ore da quando ieri scrivevamo del dramma che si sta consumando in Afghanistan e, nello specifico, all’aeroporto di Kabul. Ci sembrava già enormemente grande tutto quel dolore e tutta quella sofferenza fisica e psichica che migliaia di afghani stavano vivendo nel pantano di quello Stige che costeggia le mura che separano da una partenza che diventa sempre più impossibile. Le voci degli 007 americani davano per imminente un attacco di kamikaze dell’ISIS-K, quello della provincia del Khorasan, ai confini col Pakistan, dove il groviglio dei traffici di armi, di esseri umani e di soldi sporchi è così denso da diventare inestricabile.

Ed erano voci attendibili. Perché gli americani, che hanno la responsabilità della sicurezza del “Karzai“, non hanno fatto nulla? Con tutta la tecnologia che si portano appresso nelle guerre con cui esportano la democrazia, non avevano un rilevatore di esplosivi agli ingressi dove la fiumana di gente si getta per salvarsi dalla furia talebana? Non c’era proprio nulla che si potesse fare per fermare i terroristi dell’ISIS che odiano prima di tutto gli occidentali e, non di meno, i talebani?

Ci sembrava che la situazione fosse già abbastanza drammatica, ed invece le quattro esplosioni che hanno ucciso quasi cento persone, compresi dodici marines statunitensi e molti bambini, si sono verificate in punti precisi nei pressi dell’aeroporto internazionale della capitale afghana. Proprio in mezzo a quella folla che agita i passaporti con le mani alzate, porta con sé bandiere francesi, tedesche, esibisce tutte le carte possibili per alimentare la speranza di fuggire da un paese in mano all’integralismo religioso e al fanatismo terrorista.

La bandiera bianca dei Talebani e quella nera dell’ISIS si scontrano come gli opposti, anche se a noi occidentale pare strano che si fronteggino, perché siamo stati abituati a considerare il mondo dell’intransigenza teocratica, del radicalismo jihadista come un monolite prive di venature, compatto e ben definito nei suoi contorni. Ed invece non è così. I combatti dello Stato Islamico del Khorasan rimproverano agli studenti delle madrasse di essere scesi a patti con il satana americano a Doha e di essersi, praticamente, ammorbiditi, di aver accettato il dialogo con il nemico e di aver quindi tradito la causa del Jihad.

Dalla caduta del califfato nero che aveva messo le sue radici a Raqqa e a Mosul, solo perché quel territorio era stato a poco a poco sottratto ai tagliagole del Daesh dai combattenti curdi dello YPG, dalle truppe governative siriane e da quelle irachene, ci siamo fatti illudere da una propaganda giornalistico-politica che descriveva la fine dell’ISIS nel momento in cui non avrebbe più avuto un terreno su cui posare i piedi. La nostra concezione, tutta occidentale, dell’organizzazione politica non ci permette di separare la sovranità e la rappresentanza internazionale di una comunità dal territorio in cui essa vive.

Per forza di cose, l’ISIS ci appariva una minaccia concreta finché controllava più di 90.000 chilometri quadrati di terre tra Siria e Iraq, cancellando per un lustro quei confini tracciati da Sykes e Picot appena dopo la Prima guerra mondiale. Senza un’area geopoliticamente delimitata, da rintracciare sulle mappe e sugli atlanti, i combattenti criminali del DAESH sono stati fatti sparire prima di tutto dall’informazione massmediatica e poi sono scomparsi nella nostra mente, convincendoci che la diaspora aveva messo fine a quel regno del terrore e che restavano dei gruppi armati che sopravvivevano in regioni più che altro tribali dell’Africa e del Medio Oriente: dalla Libia al Senegal, dal Mozambico all’Afghanistan. Per l’appunto.

Oggi scopriamo che l’idea di organizzazione politico-militare che hanno questi terroristi può sopravvivere anche senza un punto geofisico di riferimento, un territorio preciso in cui proclamarsi vincitori di qualcosa e su qualcuno. Nella provincia del Khorasan, a poche miglia dall’importante centro di Jalalabad, gli integralisti dell’ISIS hanno mantenuto un esercito di poche migliaia di uomini (per cui non possono dirsi, almeno nel senso classico del termine, militarmente pericolosi per il nuovo potere talebano), ma agguerrito: hanno messo in essere oltre cento attentati, quasi tutti contro la popolazione civile e lo hanno fatto nella più diverse provincie dell’Afghanistan.

Adesso, in mezzo a tutti i dubbi sull’efficienza della grande e possente macchina americana di spionaggio e di prevenzione della rete del terrore, il quadro si tinge di colori scuri, cambia la prospettiva e persino la cornice in cui viene posto: i morti pesano sulle coscienza ma, almeno per i governi, pesano anche mediaticamente, social-politicamente e hanno una rilevanza inversamente proporzionale, per cui più non hanno “senso” e più diventano ingombranti per un esecutivo che eredita una politica trumpiana (quella degli accordi di Doha) e una politica democratica nel mettere fine alla ventennale guerra contro Al Qaeda, Talebani e Daesh.

Tutte creature di destabilizzazioni di interi paesi, dove prima esisteva un equilibrio tra le diversissime componenti che fanno capo alla medesima religione, ma che si combattono oggi per un predominio teocratico, per un dominio politico, per una egemonia anche culturale e sociale in una zona del pianeta dove sono centinaia di milioni coloro che seguono invece pacificamente i dettami del Corano.

Gli attentati all’aeroporto di Kabul spingono chiunque a vedere quasi istintivamente nei Talebani dei “moderati“, una forza di massa che ha scelto la via istituzionale e della diplomazia. Poco importa che abbiano sgozzato poche ore prima il comico Khasa Zeman che li ha derisi fino all’ultimo respiro; poco importa forse che le donne debbano stare a casa e non recarsi più al lavoro; poco importa, può darsi, che l’oppio torni ad essere una fonte di reddito per chi ha instaurato un emirato assolutista e per i mercanti fuori confine che riprenderanno un commercio che fletteva verso il basso dai tempi dell’intervento americano, nel lontano 2001.

Per Cina e Russia i Talebani sono già interlocutori affidabili. Forse lo diverranno anche per gli americani e gli europei. Perché il pericolo rappresentato dall’ISIS appare maggiore di quello rappresentato dal governo di Baradar, per la sua incontrollabilità, per la impossibilità – almeno fino ad oggi – di stabilire contatti con questi assassini che si ritengono gli unici depositari della verità rivelata da dio, dell’interpretazione delle sue leggi e portatori di una inciviltà che dovrebbe essere l’unica al mondo, quella prescelta, prediletta e predestinata. Un suprematismo che le religioni hanno nel loro portato naturale, perché legano la loro sopravvivenza ad un rapporto privilegiato con l’eternità che dipingono nel cielo e alla quale affidano l’eternità secolare in terra di un potere, di uno Stato, di un popolo.

La lotta al terrore non la si vince schierandosi con i Talebani, nemici “meno-nemici” di un tempo, anche se non ancora “mezzi-amici“, contro l’ISIS del Khorasan. La lotta al terrore la si vince superando tutte quelle contraddizioni economico-politiche che portano allo scontro delle cosiddette “civiltà“, nel nome di una resurrezione moderna di un imperialismo dal sapore antico, dal retrogusto metallico di un sangue versato a fiumi… Proprio come quello che costeggia l’aeroporto di Kabul e che ieri i testimoni descrivevano “tinto di rosso“…

La grande contesa mondiale prosegue, mentre i popoli muoiono, le azioni delle aziende che producono armi crescono di valore e i governi si assicurano di avere sempre un nemico pronto da mostrare alla gente per sostenere le ragioni della difesa della democrazia. Anche una possibile amicizia con i Talebani. Cosa non si fa per sembrare amici della libertà…

MARCO SFERINI

27 agosto 2021

foto: screenshot

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