Un giorno Milan Kundera sarà ricordato come colui che ha concluso e dato una forma definitiva alla grande tradizione del Modernismo europeo.

Non solo perché la sua lunga vita, iniziata nel 1929, ha abbracciato gran parte di quella straordinaria avventura dell’arte, ma perché nei suoi romanzi – proverbialmente capaci di unire profondità di pensiero, raffinatezza psicologica e una levità narrativa in grado di rivelare l’abisso della vita senza mai negarsi il lucido sorriso di un disincanto da autentico illuminista – tutte le invenzioni e gli esperimenti del Novecento avevano ripreso vita, e raggiunto qualcosa di simile a un ultimo stadio di limpida chiarezza.

Da quell’osservatorio unico delle miserie e grandezze del XX secolo che è stata la Cecoslovacchia, Kundera ha visto tramontare da bambino la democratica Repubblica sorta dalla fine dell’impero asburgico, ha conosciuto l’occupazione nazista e la guerra mentre imparava dal padre a suonare il pianoforte, ha osservato l’Europa dividersi in blocchi all’epoca dei suoi studi universitari a Praga e ha presto condiviso la disillusione per quella rivoluzione mai avvenuta, che aveva consegnato il suo paese a un nuovo regime oppressivo.

Fu nel momento in cui quel regime cominciò a vacillare che Kundera diventò, quasi all’improvviso, il grande scrittore che sarebbe rimasto per tutta la vita.

Nel 1967, dopo avere raggiunto la notorietà con la pièce I guardiani delle chiavi e i racconti intitolati Amori ridicoli, pubblicò Lo scherzo, un capolavoro assoluto e un libro irripetibile, nel quale una cartolina scambiata per segnale di una ribellione politica finisce per travolgere la vita del suo autore: il più incolpevole colpevole mai apparso sulla scena del romanzo europeo.

Il racconto apparve subito inscindibile dal momento che la Cecoslovacchia stava vivendo, dal risveglio lungamente preparato che portò alla «Primavera» del 1968 e dal tragico finale di quella stagione di dolore, di felicità e illusioni. Kundera diventò in un attimo un punto di riferimento per una società che – come non si sarebbe stancato di ricordare – era profondamente unita dalla sua letteratura.

Il premio dell’Unione degli scrittori cechi, che ricevette per il suo romanzo, gli attirò l’ostilità dei burocrati nell’epoca della «normalizzazione». Espulso dal partito non poté più scrivere se non sotto pseudonimo. Perseguitato e costretto a un’esistenza semiclandestina riuscì ancora a pubblicare La vita è altrove, il suo libro sulla «rivoluzione europea» e sul suo poeta esemplare, l’egocentrico e opportunista Jaromil. Ma la storia farsesca e tragica gli attirò definitivamente gli odi delle autorità.

Nel 1975 Kundera lasciò infine la Cecoslovacchia con un visto d’espatrio di due anni che equivaleva a un esilio. Raggiunse la Francia e, aiutato da alcuni intellettuali francesi, ottenne prima la cattedra di letterature comparate a Rennes e poi all’École des hautes études di Parigi.

A quell’epoca tendeva già a considerare finita la sua storia di scrittore. Ma benché lavorasse ancora, in ceco, a romanzi in cui trasfigurava la storia della Cecoslovacchia e il suo stesso passato, come Il valzer degli addii e Il libro del riso e dell’oblio, benché venisse privato nel 1979 della nazionalità ceca (presto compensata dall’acquisizione di quella francese concessagli da François Mitterand nel 1981), Kundera aveva conquistato una diversa identità di scrittore e la sua dimensione artistica definitiva: quella di narratore europeo erede consapevole – più di qualunque suo contemporaneo – di una tradizione del romanzo a cui riconosceva (e avrebbe sempre riconosciuto) la capacità di dare una coscienza alla storia e alla vita degli individui che la attraversano.

Fu infatti a questo punto che l’arte di Kundera assunse la sua forma più compiuta, abbracciando quella forma del romanzo-saggio che subito produsse il suo capolavoro più conosciuto, L’insostenibile leggerezza dell’essere: un autentico colpo di genio.

Kundera non aveva abbandonato i suoi temi, ma li aveva immersi in un nuovo contesto. Lo spazio del racconto era diventato internazionale, il romanzo non aveva più confini, i suoi contenuti toccavano la vita di chiunque e lo dichiaravano apertamente: l’essere non fa eccezioni e questo lo rende, per chiunque, insostenibile.

Al di sotto del fluire sempre lieve, ironico, quasi discreto della narrazione, Kundera (lo avrebbe scritto nell’Arte del romanzo) lasciava affiorare idee schopenhaueriane e heideggeriane. Nelle pause saggistiche del racconto, emergevano i riferimenti agli autori nei confronti dei quali sentiva più forte il suo debito: a Proust, a Broch, anche a Musil e a Thomas Mann.

La fine dello scrittore nazionale avrebbe potuto generare un epigono. Ma la caratteristica del «saggismo» di Kundera è sempre stata quella di essere al quadrato, ovvero consapevole di proseguire una tradizione con la quale non poteva e non doveva, tuttavia, mai identificarsi completamente.

Per questo la necessità di continuare senza ripetere cominciò a generare, nella scrittura di Kundera, una quantità di invenzioni e variazioni intrecciate con straordinaria abilità alla narrazione: il saggio, benché sempre del tutto riconoscibile, non interrompe mai il flusso del racconto, ma sottopone il suo tema di fondo a una serie continua di variazioni, che attraversa tutte le tonalità emotive.

In questo modo, il romanzo può passare dall’ironia alla gravità, sfiorare la tragedia, rappresentare senza alcuna remora scenari grotteschi e aprirsi a parentesi di puro lirismo: un solo tema, attraverso le sue metamorfosi, finisce per abbracciare tutto il mondo: anzi, l’essere.

Ciò che rendeva possibile questo continuo trapassare di un tono nell’altro era uno stile assolutamente inconfondibile in cui il musicista che Kundera era stato in gioventù imponeva la sua ars combinatoria al narratore di un divenire solo apparentemente caotico. Non per nulla, una delle caratteristiche più evidenti dell’arte di Kundera è stata l’incredibile capacità costruttiva, certamente ripresa, questa, dal Broch dei Sonnambuli.

In romanzi come Il valzer degli addii o L’immortalità si fa addirittura fatica a seguire le peripezie della narrazione. Kundera sembra divertirsi ad allontanare il lettore dal centro del racconto, a disperdere la sua attenzione, per poi ricondurre tutti i fili del romanzo, con una capacità che appare quasi magica, a una sola limpida, evidente logica.

Lo sguardo illuminista che l’amante del Settecento francese getta sugli sviluppi sempre sorprendenti delle sue trame dipende tutto da questa logica nascosta, ma pur sempre immanente alle divagazioni del racconto di cui solo alla fine il lettore riesce a scorgere il significato.

Kundera era infatti anche in questo erede del Modernismo: la sua narrativa è un’arte della conoscenza, del disvelamento, in cui il racconto porta alla luce l’inconscio delle parole, l’essere sottinteso che scorre in esse invisibile fino a che la rappresentazione non lo stana. Per questo, si direbbe, Kundera è stato un difensore strenuo della letteratura e del suo valore.

In un saggio del 1983 apparso in italiano solo di recente, Un occidente prigioniero, ha spiegato nel più chiaro dei modi quale fosse, per lui, la necessità della letteratura e quale il rischio che una società sempre più distratta corre dinanzi al suo oblio: la perdita della coscienza di sé, quella coscienza che la narrazione strappa invece, di volta in volta, al nulla.

Di fronte al pericolo di una generale omologazione culturale, di fronte al rischio di perdere la memoria di sé stratificata nella cultura, nella lingua, nelle parole che usiamo con sovrana superficialità, la letteratura rimette sempre in gioco la profondità, il rapporto doloroso con l’ignoto e la felicità irrefrenabile del suo venire alla luce.

Per questo, negli ultimi anni, il suo peggior timore era che i lettori di romanzi d’arte diventassero, in futuro, rari come i cultori della tarda latinità.

L’eredità del moderno è il ricordo del moderno: continuare il discorso del Modernismo significava per Kundera restare in contatto con quell’ultima propaggine illuministica che aveva sfidato il minaccioso dilagare del nichilismo. E quel contatto aveva a disposizione una sola arma: la volontà di conoscere, svelare e ricordare.

LUCA CRESCENZI

da il manifesto.it

foto: screenshot