Bipolarismo e confusione: il NO è un voto per la Costituzione

In Parlamento si è formato uno schieramento di maggioranza sostanzialmente ricalcante le vecchie traccie del bipolarismo, al quale molti nel PD hanno cominciato a pensare proponendo un’alleanza strutturale con...

In Parlamento si è formato uno schieramento di maggioranza sostanzialmente ricalcante le vecchie traccie del bipolarismo, al quale molti nel PD hanno cominciato a pensare proponendo un’alleanza strutturale con il M5S. Bipolarismo che non corrisponde però, come vedremo meglio, alla situazione reale del Paese.

Il partito di maggioranza relativa ha dimostrato, nel corso di questa legislatura, di non riuscire a svolgere una funzione “pivotale” sbilanciandosi in due opposte dimensioni di governo causando così problemi di squilibrio e deficit di legittimazione del sistema.

In previsione del referendum sul taglio della democrazia sarà bene svolgere qualche valutazione di carattere tecnico, sul piano delle possibili analisi elettorali. La legge che riduce il numero dei deputati e dei senatori è stata votata alla Camera dall’88,7% dei presenti. Come giustamente scrive Stefano Folli su “la Repubblica” in questa occasione i voti andranno pesati oltre che contati. In questo senso il “SI” pronunciato dalla Direzione del PD appare un’operazione molto rischiosa perché miope, misurata esclusivamente sugli attuali equilibri di governo.

Andando per punti: ai fini di una corretta valutazione dell’esito del voto del 20-21 settembre, risulterà decisivo considerare la differenza nella partecipazione al voto tra le Regioni impegnate nel rinnovo del Presidente e del Consiglio e le Regioni dove, oltre al voto referendario, si avrà soltanto un limitato numero di rinnovo dei Sindaci e dei Consigli Comunali oppure là dove l’elettorato sarà chiamato ad esprimersi soltanto sul quesito referendario.

Con riferimento alla già sviluppata annotazione circa l’essersi formato un nuovo bipolarismo nel gioco maggioranza – minoranza in Parlamento c’è da rilevare, prima di tutto, che nelle elezioni svolte nel 2010 al riguardo delle 6 regioni nelle quali si voterà in questa occasione il peso del bipolarismo risultava a quell’epoca assolutamente preponderante. In quel momento gli aventi diritto al voto nelle 6 regioni in questione erano 18.145.688. I voti validi furono 11.061.841 pari al 60,96%. Il centro sinistra ottenne 4.923.806 voti pari al 44,51%. Il centro destra 5.318.349 pari al 48,07%. In totale centro sinistra e centro destra monopolizzavano il 92,58% dei voti validi, lasciando alle altre formazioni (5 stelle compresi) il 7,42%.

Scenario molto modificato nel 2015. Praticamente invariato il numero totale degli aventi diritto: 18.193.220. Secco ridimensionamento del totale dei voti validi: 8.915.034 (2.146.807 in meno) pari al 49,00% (-20,05%). Soprattutto modificato radicalmente il quadro bipolare e non soltanto per l’aumento di suffragi fatto registrare dal M5S. Nel 2015, sempre con riferimento alle 6 regioni in questione, il centrosinistra scende a 3.376.148 (una perdita di 1.547.658 voti) 37,87% (- 6,64%); il centrodestra cala a 2.954.447 (  2.363.902) 33,14% (-14,93%). Il bipolarismo è stato così rotto non soltanto dalla crescita dei 5 stelle che hanno ottenuto 1.496.415 voti pari al 16,78% ma anche dalle altre liste (nelle quali si segnalano liste di Forza Italia fuori dal centrodestra e liste di Sinistra fuori dall’alleanza con il PD) che ottengono 1.088. 024 pari al 12,21%. Da notare che tutti i presidenti, nel 2015, sono stati eletti perdendo voti rispetto a quelli ottenuti dai loro precedessori (o da loro stessi) nell’occasione precedente.

La rottura del bipolarismo (sul cui schema si configura l’attuale assetto parlamentare) uscirà accentuata dalla votazione del 20-21 settembre. In nessuna regione, infatti, è prevedibile una forte egemonia di quelli che dovrebbero essere considerati i principali schieramenti in relazione alla maggioranza e alla minoranza parlamentare. Una discrasia molto forte che dovrebbe indurre a riflettere sulla fragilità del sistema politico prima di tutto nel rapporto centro – periferia (fragilità ben evidenziatasi del resto nella fase dell’emergenza sanitaria) ma anche e soprattutto all’interno delle forze politiche incapaci evidentemente di trovare un punto di riferimento e di equilibrio, un loro vero e proprio baricentro.

La crescita della non partecipazione al voto avvenuta in queste regioni tra il 2010 e il 2015 dovrebbe far riflettere prima di tutto alla scarsa attrazione esercitata dall’Ente Regione rispetto all’elettorato (nelle stesse regioni alle politiche del 2018 i voti validi, in crescita, hanno raggiunto il 71% rispetto al totale degli aventi diritto). Su questa base, considerato lo scarto prevedibile tra partecipazione alle politiche e partecipazione alle regionali, appare molto difficile il raggiungimento nel referendum del 50% dei voti validi su tutto il territorio nazionale. Naturalmente quella quota non è richiesta dalla legge ma rimane un tetto simbolico importante.

Nel 2016, nel referendum costituzionale del 4 dicembre i votanti erano stati oltre il 59% degli aventi diritto. Nel 2006 oltre il 52%. Per confermare la quasi unanime votazione parlamentare, considerati nel complesso circa 23 milioni di voti validi (quindi sotto al 50%) il SI dovrebbe toccare almeno i 20 milioni di voti . Sulla valutazione del rapporto,nel voto per il SI, tra maggioranza e minoranza parlamentare saranno preziosi i raffronti dei voti ottenuti dalla liste nelle elezioni regionali. Beninteso, tutti i dati fin qui esposti e/o ipotizzati hanno valore come indicatori di linee di tendenza;

Nella sostanza si possono trarre queste indicazioni conclusive:

a) il bipolarismo parlamentare messo su da PD e M5S non corrisponderà al voto espresso nelle 6 regioni in questione, palesando così un ulteriore evidente punto di frattura nel sistema. Si tratterà di un segnale non tanto di debolezza del governo ma di crisi nella legittimazione del sistema stesso , in particolare se si accompagnerà con un calo di voti in cifra assoluta per il centro destra che pure si presenta in una dimensione più compatta;

b) nel referendum è in gioco l’assetto costituzionale. Per difenderlo, nonostante il grave vulnus che la vittoria del SI potrebbe arrecargli, è necessario che il NO ottenga comunque un risultato molto rilevante superiore alla quota di partenza stabilita sulla base della votazione parlamentare (nell’ipotesi di 23 milioni di voti all’incirca 3 milioni).

c) E’ necessario non confondere: va tenuta ben distinta la questione del governo e quella costituzionale. La base di voti che otterrà il NO dovrà rappresentare il punto di partenza per un’azione politica non soltanto di difesa della Costituzione ma di sua affermazione soprattutto nella capacità di pieno ripristino della forma di governo parlamentare, oggi messa fortemente in discussione nell’insieme degli schieramenti parlamentari e, in particolare, da destra.

E’ necessario far capire al meglio che il NO non deve tradursi direttamente in un voto contro il Governo ma deve essere inteso come l’espressione libera di un voto per la Costituzione. Un voto che necessariamente deve collocarsi ben oltre l’esito immediato del confronto fra forze politiche. Forze politiche che tutte assieme, considerata quella che sarà la percentuale dei voti validi e l’ulteriore squilibrio tra formule parlamentari e dislocazione nelle espressioni di consenso popolare, si trovano in forte difficoltà di legittimazione.

Soltanto una forte affermazione costituzionale rappresentata dal “NO” potrà rappresentare un punto di riferimento di recupero di legittimazione, credibilità, autorevolezza per il sistema parlamentare: il No servirà soprattutto a questo se all’indomani del voto saremo capaci di fornire una seria prospettiva politica all’indicazione data da elettrici ed elettori come non avvenne, invece, all’indomani dell’affermazione nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016.

FRANCO ASTENGO

9 settembre 2020

foto: Comitato per il NO al taglio del Parlamento

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