Si offre un dialogo che ha il sapore amaro della resa

La polemica. Non si può dimenticare che i taleban (versione originale) erano stati formati, finanziati e portati al potere da Stati uniti, Pakistan e Arabia saudita. Sembra quasi che alla base del dialogo ci sia la concezione che, in fondo, i taleban e il terrorismo islamico, sono solo una reazione all’occupazione e alle guerre occidentali

La parola magica è dialogo. Per salvare gli afghani o per lavare la coscienza di chi ha occupato per vent’anni il paese e ora fugge lasciando la situazione che aveva trovato al suo arrivo: l’emirato dei taleban. C’è chi sostiene che bisogna trattare con il nemico, quindi i taleban. In questo caso gli Usa sono in pole position per aver negoziato (che cosa non è del tutto chiaro, c’erano e ci sono clausole rimaste segrete) con il nuovo capo di Kabul, il mullah Abdul Ghani Baradar a Doha. Tuttavia i sostenitori del dialogo dicono con chi (taleban) ma non su che cosa trattare: per il rispetto dei diritti umani, per i diritti delle donne, per lasciare le frontiere aperte a chi vuole fuggire, per formare un governo «inclusivo» (ma per quello stanno già trattando l’ex-presidente Hamid Karzai e il vicepresidente tagiko Abdullah Abdullah), per accaparrarsi delle risorse minerarie? E chi dovrebbe trattare con i taleban? La comunità internazionale (ammesso che qualcuno possa trattare per tutti), l’Onu, l’Unione europea, gli ex-occupanti, i paesi vicini?

Non si può dimenticare che i taleban (versione originale) erano stati formati, finanziati e portati al potere da Stati uniti, Pakistan e Arabia saudita. Il Pakistan sembra il principale artefice della nuova vittoria lampo, gli interessi in ballo sono evidenti. Senza dimenticare che Russia e Cina stanno già trattando e da una posizione di forza perché non hanno evacuato le proprie ambasciate, e che comunque la trattativa presuppone in qualche modo il riconoscimento dell’emirato.

Trattare nel momento in cui i taleban sono interessati a mostrare l’immagine più accettabile dell’emirato, per ottenere riconoscimenti a livello internazionale, così la trattativa sarebbe più accettabile per tutti. Trattare, dopo essere scappati, per tornare e come? Senza una presenza internazionale chi garantirebbe un eventuale accordo?
Insieme alla trattativa si sostiene la necessità del ritorno della politica, estremamente importante, ma sembra che in questo caso la politica sia intesa solo come compromesso.
Manca comunque una riflessione sul fallimento (ma quali erano i veri obiettivi?) del ventennale intervento occidentale, forse era tutto calcolato e la fuga con il ritorno dei taleban potrebbe lasciare la via aperta a un eventuale nuovo intervento «umanitario» in futuro come sostengono alcuni democratici afghani.

A parte le previsioni per un futuro certamente non roseo da qualunque parte si guardi, resta il problema del perché dopo vent’anni i taleban che hanno subito anche emorragie verso al Qaeda e Isis, pur con l’appoggio di potenze regionali, non siano stati intaccati ed erosi nelle loro fondamenta da vent’anni di presenza occidentale. L’occupazione essenzialmente militare ed economica non si è mai confrontata e non ha mai combattuto l’ideologia che sorregge il fondamentalismo islamico e anche il terrorismo.

Sembra quasi che alla base del prospettato dialogo con i taleban ci sia la concezione che, in fondo, sia loro che il terrorismo islamico più in generale, sono solo una reazione all’occupazione e alle guerre occidentali. Purtroppo questa semplificazione è errata. Probabilmente ormai nessuno si ricorda più delle stragi dei Gruppi islamici armati (Gia) in Algeria negli anni ’90, degli sgozzamenti e dell’uccisione delle donne che non portavano il velo per mano di combattenti reduci dall’Afghanistan, in quel paese non c’è mai stato un intervento straniero, però c’era una moschea chiamata Kabul.

GIULIANA SGRENA

da il manifesto.it

foto: screenshot

altri articoli