Cinque anni dal sisma. Le strade in salita dell’Appennino ferito

Ricostruzione. La battaglia è ancora incerta ma il commissario Legnigni parla di «segnali positivi», confermati dai numeri

L’estate falsa la prospettiva. A passare per la Salaria, al confine tra le Marche e il Lazio, nei luoghi che cinque anni fa furono sbriciolati dalla prima di una lunga serie di scosse di terremoto, sembra quasi di stare in un grande parco giochi. Camminatori d’alta quota, famiglie in gita, i tavolini all’aperto dei bar e dei ristoranti sempre pieni, auto parcheggiate ai lati della strada, roulotte in fila, motociclette.

«Facciamo cassa adesso, perché dopo…», commenta la barista dell’area Sae di Arquata del Tronto. «Dopo», infatti, torna l’eterno durante di un doposisma infinito: i turisti se ne vanno, i bar si svuotano, la vita langue come sempre. Con il Covid un po’ di più, ma è dalle 3 e 36 della notte del 24 agosto del 2016 che tutto si è fermato. Non solo per le 299 vittime – questa mattina, alle 11, al campo sportivo di Amatrice ci sarà la messa in suffragio con la partecipazione di Mario Draghi -, ma anche perché «ricostruzione» non vuol dire solo le case crollate, ma tutta una struttura civile e sociale che ormai si è persa forse per sempre.

Il commissario alla Ricostruzione – il quarto in cinque anni, l’unico che sin qui ha visto due anniversari della prima botta grossa – Giovanni Legnini può essere soddisfatto del suo lavoro. E in effetti lo è: «La ricostruzione prosegue, i segnali sono positivi», dice.

I numeri lo confermano e bisogna dire che nell’ultimo anno è stato fatto molto più che in tutti e quattro i precedenti: 20.700 domande di ricostruzione (+60% nel 2021), 10.263 cantieri autorizzati, 2,7 miliardi di euro di finanziamenti accordati. Cinquemila interventi già conclusi, 12.000 unità abitative restituite ai cittadini, 13.000 in via di ristrutturazione. Bene anche gli interventi pubblici: 2.600 già finanziati, incluse le 900 chiese del cratere.

La formalità dei dati non lascia spazio a interpretazioni, ma è nelle spiegazioni che, in controluce, si vede che la battaglia per la supposta rinascita dell’Appennino è ancora in corso e molto incerta. «I centri storici saranno ricostruiti dove erano, ma non esattamente come erano – spiega Legnini -. È necessario garantire ai cittadini edifici moderni e sicuri, anche in termini di efficienza energetica. Ferma restando la necessità di rispettare l’ambiente, il paesaggio e le caratteristiche storiche e architettoniche degli edifici. In alcune situazioni non si potrà costruire. Stiamo conducendo alcuni studi, coinvolgendo anche le università ed enti come Ispra, per analizzare il rischio frane e dissesto idrogeologico nei territori. Questi studi ci diranno se la ricostruzione è possibile e a quali condizioni».

Il problema è che il tempo passa, e molti di quelli che sono andati via non tornano indietro. Né lo faranno mai. «Premesso che tutta l’Italia è in contrazione demografica e che le aree interne sono in sofferenza per tanti motivi dal dopoguerra, nel cratere a mancare è un’idea di economia sostenibile e in grado di far tornare le persone», spiega Nico Bazzoli, sociologo, ricercatore all’Università di Urbino. E ancora: «Qui si viveva di agricoltura povera e ultimamente sta prendendo piede il turismo, ma è una chiave risolutiva sbagliata, perché ha ricadute troppo concentrate. A guadagnarci, insomma, sono poche categorie: ristoratori, albergatori, chi affitta le case… Si fa molta retorica sul turismo, ma la verità è che non offre prospettive di sviluppo solide, basta pensare a quello che è successo con la pandemia: si è bloccato tutto».

E così, oltre a chi vive grazie ai turisti, nel cratere ci sono rimaste le fasce più deboli, quelli che non hanno avuto modo o che non hanno avuto i soldi per andare via. I dati presentati a luglio dal «Team System Marche» parlano di 17.000 abitanti in meno rispetto al 2016 e 400 imprese che hanno chiuso o delocalizzato.

L’età media è alta, così come lo è la concentrazione di persone con disabilità e con redditi bassissimi. Gli altri hanno cambiato vita. «Era scontato – argomenta Bazzoli -, le famiglie, i lavoratori, le stesse aziende hanno preferito spostarsi verso le città più grandi e verso la costa. Sicuramente la lentezza nella ricostruzione non ha aiutato, ma l’idea di fondo non è mai stata quella di ricostruire e di elaborare qualcosa di socio-economicamente solido. Si preferisce cercare di trasformare questi paesi in una sorta di Disneyland della montagna».

E tra un concertone nel parco nazionale, una convention di auto d’epoca tra le macerie, una sagra di prodotti tipici e altre amenità dotate di sponsor importanti, a rimetterci sono quasi sempre le iniziative che nascono dal basso. È il caso del Montelago Celtic Festival di Serravalle di Chienti, in provincia di Macerata: gli organizzatori sono arrivati a parlare esplicitamente di «ostilità da parte delle istituzioni».

MARIO DI VITO

da il manifesto.it

foto: screenshot

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